Skip to main content

Quale tribunale per i crimini russi in Ucraina? Le proposte di Lattanzi

Il paper di Flavia Lattanzi, docente di diritto penale internazionale e già giudice nei tribunali penali per la ex-Iugoslavia e il Ruanda, sui crimini di guerra e le vie giudiziarie percorribili nei confronti della Russia a un anno dall’inizio del conflitto. Questi temi saranno trattati il 24 febbraio 2023 alle 17.30 in una conferenza organizzata dalla Fondazione Donat-Cattin che sarà trasmessa anche sui canali social di Formiche.net

Già dalle prime settimane dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa, alcuni c.d. opinionisti hanno sostenuto la necessità dell’istituzione, secondo il modello precedente dei Tribunali militari di Norimberga e Tokyo, di un Tribunale penale speciale per i “crimini internazionali” [1] di cui venivano accusati i membri delle Forze armate e delle milizie russe sul territorio ucraino (di seguito “i crimini russi”).

Essi forse ignoravano che la precedente Procuratrice della Corte penale internazionale (Cpi) aveva da tempo avviato la c.d. analisi preliminare sui crimini di guerra, crimini contro l’umanità ed eventualmente atti di genocidio commessi da chiunque – sia esso russo, ucraino o di altra nazionalità – sul territorio ucraino a partire dal 21 novembre 2013. Tali procedure erano partite, come sappiamo, sulla base dell’accettazione ad opera dell’Ucraina della competenza della Corte su tali crimini tramite le due Dichiarazioni ad hoc del 2014 e del 2015 (v. qui mio Paper del 3 marzo 2022). Naturalmente, l’Ucraina non poteva riferirsi in quelle Dichiarazioni al crimine di aggressione.

Dopo il nuovo tragico evento dell’invasione russa dell’Ucraina, il nuovo Procuratore ha accelerato la procedura su quelle tre categorie di crimini contemplati da quelle Dichiarazioni chiudendo la fase preliminare e avviando le indagini, grazie ai rinvii alla Core della situazione ucraina da parte di ben 43 Stati, ciò che non era mai avvenuto per altre situazioni. È dunque evidente che un tribunale che si occupi in generale dei “crimini russi” in Ucraina è improponibile e alcuni c.d. opinionisti dovrebbero riflettere prima di esprimere posizioni insostenibili.

È un fatto però che, come da me già indicato nel Paper sopra citato, la Cpi non può indagare sul crimine di aggressione contro la popolazione ucraina di cui i membri della leadership russa sono sospettati, perché né la Russia né l’Ucraina sono parti dello Statuto di Roma.
L’affermata incompetenza della Cpi su tale crimine spiega la ragione per cui anche autorevoli giuristi hanno iniziato ben presto a chiedere o ad auspicare per esso la creazione di un Tribunale penale speciale. Sono anche emerse proposte ad opera di organizzazioni internazionali o studiosi ed esperti in materia, che prendono a modello l’uno o l’altro dei diversi strumenti di giustizia penale internazionale che hanno operato in situazioni passate o sono tuttora operativi.

Con questo Paper mi propongo di valutare in quale misura alcune delle opzioni proposte, essenzialmente quelle delle organizzazioni internazionali, siano giuridicamente e politicamente praticabili per il perseguimento del crimine di aggressione russo contro la popolazione ucraina, e se la sola via o la più idonea per tale perseguimento sia veramente un Tribunale speciale di giustizia penale internazionale.
A tale scopo mi è necessario ripercorrere preliminarmente e brevemente lo sviluppo di tale giustizia a partire dal tentativo di crearla nel 1919 con il Trattato di Versailles (par. 2, sotto paragrafi a), b), c), d)) fino ad arrivare alla Cpi Sul sistema di questa Corte mi è necessario fermarmi in modo un po’ più approfondito di come io lo abbia fatto nel mio Paper apparso su Formiche.net (Par. 3 a) b) c) d) e)). Dedicherò poi un paragrafo alla praticabilità giuridica e politica della creazione di un Tribunale speciale per il crimine di aggressione russo (par. 4, a), b), c), d)) e brevi osservazioni conclusive alla possibilità di una via alternativa per la punibilità di quel crimine.

a) Sappiamo che già nel Trattato di Versailles del 1919 era stata prevista la creazione di un Tribunale comune delle Potenze vincitrici della I guerra mondiale al fine di giudicare lo sconfitto Imperatore tedesco Guglielmo II per il “crimine supremo contro la morale internazionale e la sacrosanta autorità dei trattati” (art. 227).

Sappiamo anche che, per varie ragioni essenzialmente politiche, tale Tribunale non fu istituito. Ma su tale fallimento giocò anche il fatto che mancava un appiglio giuridico alla criminalizzazione dei comportamenti addebitabili all’Imperatore, in particolare riguardo a quel “crimine supremo” che in sostanza non era altro che il “crimine morale” di aggressione. Infatti, la “Commissione sulle responsabilità degli autori della guerra e sulle sanzioni”, creata a Versailles per l’accertamento dei fatti relativi a tali responsabilità, mentre ammise il perseguimento degli autori dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità, concluse che «Gli atti che hanno portato alla guerra non possono fare oggetto di una messa in stato di accusa dei loro autori e del loro perseguimento davanti a un tribunale». Il mancato rispetto della neutralità del Belgio e del Lussemburgo fu però ritenuto dalla Commissione una grave violazione del diritto internazionale, ma pur sempre non giuridicamente criminalizzabile rispetto ai membri della leadership tedesca che avevano deciso l’invasione di tali territori.

La responsabilità tedesca per la guerra di aggressione fu poi però affrontata sul piano riparatorio e sanzionatorio interstatale, con l’imposizione alla Germania di pesanti riparazioni “per tutte le perdite e tutti i danni subiti dai governi alleati e associati, nonché dai loro nazionali in conseguenza della guerra loro imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati” (Art. 231 del Trattato di Versailles). La Germania si era battuta fermamente a Versailles contro questa disposizione, contestando la propria responsabilità per la guerra, ma infine fu costretta a firmare suo malgrado. Ma la c.d. questione della “menzogna sulla colpa per la guerra” (la Kriegsschuldlüge) avrà un ruolo non di poco conto nell’avvento del nazismo, facilitato anche dall’atteggiamento conciliativo verso la Germania soprattutto della GB, che era dettato dalla cattiva coscienza degli ex-alleati per le pesanti riparazioni imposte alla Germania.

Se la Commissione istituita a Versailles escluse la responsabilità penale degli autori delle decisioni che avevano portato alla guerra, a essa va però riconosciuto il merito di aver dato un contributo importante alla giustizia penale internazionale con riguardo a tre suoi aspetti di particolare rilevanza: i) essa ha anzitutto affermato la responsabilità penale internazionale non solo per i crimini di guerra – nozione peraltro secolare -, ma anche per i crimini contro l’umanità, una nozione che era invece apparsa per la prima volta proprio durante il I conflitto mondiale con riferimento al massacro degli Armeni (attualmente qualificabile come genocidio); ii) essa ha inoltre ritenuto che tale responsabilità può essere fatta valere anche a conflitto ormai concluso e anche davanti al giurisdizioni diverse da quelle del luogo di commissione dei crimini o di nazionalità dei sospetti autori; iii) essa ha infine ritenuto che nell’accertamento delle responsabilità penali dei membri delle leadership statali per le dette due categorie di crimini internazionali non fossero applicabili le immunità di cui tali membri normalmente godono come organi di Stati, neppure le immunità personali dei Capi di Stato e di governo. Queste posizioni assunte da quella Commissione rappresentano tre pietre miliari nel cammino allora intrapreso dalla giustizia penale internazionale.
Esse hanno anche rappresentato la base per le disposizioni dei Trattati di Versailles e Sèvres relativi all’istituzione di tribunali penali speciali, indipendenti dalle giurisdizioni nazionali e intesi a giudicare i responsabili, ma solo purtroppo fra i vinti, di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

È così che il Trattato di Versailles, oltre al Tribunale per il giudizio di Guglielmo II per la violazione della morale internazionale e dei Trattati, prevedeva un tribunale penale militare comune ai vincitori per i crimini commessi dai tedeschi contro cittadini di più di una delle Potenze alleate e associate (Art. 229(2)). Ma neppure tale tribunale fu istituito.

Se Gugliemo II, nel suo esilio nei Paesi Bassi, la fece franca per il “crimine supremo contro la morale internazionale e la sacrosanta autorità dei trattati”, i militari tedeschi sospettati di crimini di guerra e catturati dai vincitori o estradati dalla Germania furono però perseguiti dalle giurisdizioni nazionali appartenenti alle ex Potenze alleate e associate, ai sensi degli Articoli 228-229, par. 1 del Trattato di Versailles e sulla base di prove raccolte anche con la collaborazione tedesca (secondo gli obblighi impostile nell’Art. 230). In questi processi non trovarono però giustizia le migliaia di donne stuprate dagli occupanti, lo stupro essendo allora ancora considerato un normale bottino di guerra. Alcuni processi contro i Tedeschi responsabili di crimini di guerra furono svolti anche in Germania, in particolare nel 1921 davanti al Tribunale di Lipsia, ma con mediocri risultati.

Fallì poi del tutto il tentativo di punire i responsabili dei crimini contro l’umanità posti in essere nell’Impero ottomano contro gli Armeni e per i quali il Trattato di Sèvres (1920) aveva previsto la possibilità dell’istituzione di un tribunale penale internazionale da crearsi nel quadro della Società delle Nazioni. Tale Trattato non fu però perfezionato per via della mancata ratifica da parte della nuova Turchia e fu sostituito dal Trattato di Losanna (1923), che ignorò del tutto la necessità di una giustizia per quei crimini.b) La via di una giustizia penale, solo in parte internazionale, è stata seguita, questa volta con successo, alla fine della II guerra mondiale, con la creazione tramite, da una parte, il Trattato di Londra stipulato fra le Potenze alleate contro l’Asse e, dall’altra, l’Ordinanza del Comandante supremo delle Forze Alleate in Estremo Oriente, generale Mac Arthur, di due Tribunali militari comuni a tali potenze: il c.d. Tribunale militare internazionale di Norimberga e quello analogo di Tokyo.

Si è trattato dei primi Tribunali ibridi di giustizia internazionale. La loro internazionalità dipendeva anzitutto dal loro fondamento negli Atti costitutivi di cui ho detto. Inoltre, i due Tribunali applicavano le norme di diritto internazionale generale relative alle fattispecie criminose e alla c.d. responsabilità di comando, norme che erano recepite nei due Statuti. Per il resto, si trattava di Tribunali militari comuni delle Potenze alleate, i cui sistemi giuridici fornirono essenzialmente le norme di procedura applicabili.

Tali Tribunali hanno giudicato i più grandi responsabili dei crimini commessi dagli aggressori che avevano scatenato la II guerra mondiale, questa volta anche del c.d. crimine contro la pace (che corrisponde all’attuale crimine di aggressione), oltre che dei crimini di guerra e crimini contro l’umanità (gli atti di genocidio essendo stati allora considerati fra i crimini contro l’umanità). Se la responsabilità penale internazionale per il crimine di guerra era patrimonio secolare del diritto internazionale e quella per il crimine contro l’umanità era apparsa durante il I conflitto mondiale, la criminalizzazione dell’aggressione fu innovativa nell’ordinamento internazionale: essa fu dedotta dal Procuratore e dai giudici dall’obbligo assunto nel 1928 da numerosi Stati, Germania e Giappone compresi, con il Patto Briand-Kellogg, a rinunziare al ricorso alla guerra per la risoluzione delle controversie internazionali e a non farne uso come strumento di politica nazionale nelle loro relazioni reciproche.

Si ritenne cioè che la comunità internazionale avesse preso da allora coscienza anche della responsabilità penale internazionale degli individui-organi di Stato che concepiscano, pianifichino, organizzino, ordinino il crimine contro la pace, che la sentenza di Norimberga dichiarò essere “il crimine internazionale supremo, che differisce dai crimini di guerra per il fatto di contenere in sé tutto l’insieme del male accumulato”.

La giustizia di Norimberga e di Tokyo ha dunque contribuito alla generale presa di coscienza tanto del fatto che delle guerre di aggressione rispondono, oltre agli Stati (e la Germania fu duramente sanzionata, oltre che con alcune riparazioni, soprattutto con la sua divisione in diverse zone di occupazione che portarono poi a due Stati), anche gli individui-organi che agiscono per gli Stati, quanto del fatto che nella condotta della guerra non tutto è permesso.

Purtroppo però, le potenze vincitrici attribuirono ai due Tribunali la competenza di giudicare solo i vinti. Quello di Norimberga, che viene da molti indicato come modello per il tribunale speciale per l’Ucraina, aveva infatti la competenza di accertare le responsabilità dei “grandi criminali di guerra dei Paesi europei dell’Asse” (Art. 1 del Trattato) e quello di Tokyo le responsabilità “dei grandi criminali di guerra dell’Estremo Oriente”.

Davanti a questo Tribunale non sono però stati processati – purtroppo per scelta politica – alcuni grandi sospettati di crimini, come appare dalle prove raccolte e presentate al processo contro gli accusati. Fra questi lo stesso Imperatore giapponese, Capo di Forze armate i cui membri furono condannati davanti a quel Tribunale tanto per il crimine contro la pace, quanto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità orrendi (si pensi al terribile massacro di Nanchino). Né ci furono processi ai medici giapponesi (in particolare la c.d. Unità 731) che praticavano sperimentazioni su cavie umane (soprattutto su prigionieri cinesi), come invece ci fu il processo ad opera del Tribunale delle Forze di occupazione della Germania contro i medici nazisti che praticavano le stesse sperimentazioni (il c.d. Tribunale di Norimberga Due).
Restarono purtroppo impuniti anche alcuni fra i vincitori responsabili di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, quali lo furono certamente, è impossibile negarlo, i bombardamenti nucleari di Hiroshima e Nagasaki, nonché i bombardamenti tradizionali, ma a tappeto – quindi per lo più non mirati a soli obiettivi militari -, di quasi tutte le città tedesche, come di alcune città dei Paesi occupati dai nazisti, bombardamenti che colpirono centinaia di migliaia di civili (e permettetemi di notare qui che io ne so qualcosa per avere passato circa quattro anni della mia infanzia nella Cecoslovacchia sotto occupazione nazista, scampando a due bombardamenti alleati su una raffineria di petrolio vicina al villaggio in cui ero sfollata con i miei nonni e mia madre: il terzo bombardamento finalmente colpì la raffineria e non il nostro villaggio!).

È vero che con tali bombardamenti si è facilitata la vittoria degli Alleati contro la criminale dittatura nazista che aveva anche esportato il suo regime di terrore in molti Paesi europei. Ma è un fatto ormai indiscutibile che neppure in nome dell’interesse alla vittoria contro i despoti criminali del livello di Hitler si possono ignorare i divieti che la giustizia penale impone a chiunque combatta in guerra, compresi quindi i combattenti dei Paesi aggrediti.

L’accertamento delle responsabilità dei soli vinti fu quindi il grande limite di quella giustizia: la lotta contro l’impunità per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e atti di genocidio o colpisce chiunque – che sia l’aggressore o l’aggredito – o comporta un’amministrazione monca della giustizia. Naturalmente l’aggressore dovrà anche essere punito per il crimine che rappresenta la fonte di tutti i mali nelle guerre, ma degli altri crimini deve rispondere chiunque li commetta, a prescindere dalla parte per la quale abbia combattuto.

c) Di questo si è preso coscienza soprattutto con la creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite nell’ottobre del 1945, a qualche mese dall’inizio del funzionamento del Tribunale di Norimberga, e successivamente con il movimento sviluppatosi nel quadro dell’Organizzazione per la protezione incondizionata della persona umana come tale e per la responsabilità penale di chiunque leda i suoi diritti. La giustizia dei vincitori sui vinti ha quindi fatto il suo tempo. La via di una giustizia penale amministrata solo dai vincitori nei confronti dei vinti è considerata dalla comunità internazionale non più percorribile.

È questa la ragione per cui non solo associazioni private e studiosi del diritto internazionale, come anzitutto il professore rumeno V. V. Pella e poi lo studioso ebreo-polacco Lemkin, si sono adoperati per la realizzazione del sogno di una giustizia penale internazionale imparziale, in grado di raggiungere chiunque si renda responsabile di un crimine di rilevanza internazionale. Molti furono infatti i progetti elaborati anche nel quadro ONU per la creazione di un tribunale penale veramente internazionale, che fu in effetti ben presto previsto, ma solo per il genocidio nella Convenzione del 1948 e per l’apartheid nella Convenzione del 1973.

Ma l’allora divisione del mondo nel periodo della Guerra Fredda non permise la creazione né di questo tribunale né, tanto meno, di un tribunale internazionale per tutti i crimini di rilevanza internazionale che si commettano durante un conflitto armato o in tempo di pace. La costruzione di uno strumento di giustizia penale a tendenza universale si avvierà solo nel 1989, allorché uno dei blocchi che dominavano il mondo inizierà a crollare.

Nelle more dell’istituzione di tale tribunale sorsero però le due tragiche emergenze dei conflitti inter-etnici in ex-Iugoslavia (1991-1995) e in Ruanda (1994). La fine della Guerra Fredda portò così a una pausa nel ricorso al c.d. diritto di veto nel Consiglio di sicurezza delle NU (C.d.s.). Il Consiglio fu allora in grado di istituire, ai sensi del Capo VII della Carta, due Tribunali penali internazionali ad hoc per quelle due situazioni (rispettivamente nel 1993 e nel 1994). Esso qualificò ciascuna situazione come minaccia alla pace, sebbene si potessero configurare anche atti di aggressione a carico degli Stati coinvolti nei due conflitti inter-etnici, in particolare nella situazione ex-iugoslava. La punizione dei crimini di guerra, dei crimini contro l’umanità e del genocidio commessi in entrambe queste situazioni fu ritenuta dal Consiglio una misura in grado di contribuire al ristabilimento e mantenimento della pace internazionale, intento che si può considerare realizzato più nella situazione ruandese che in quella ex-iugoslava.

Nel Capo VII si prevede infatti il potere del Consiglio di adottare misure che comportino una limitazione della sovranità degli Stati membri dell’Organizzazione: nei casi in questione si trattava di una limitazione di tali Stati nell’amministrazione della giustizia penale nei confronti dei responsabili di crimini di rilevanza internazionale, la cui gestione era affidata a strumenti considerati super partes (e sulla base della mia esperienza nei due Tribunali ad hoc non posso che confermare che essi hanno veramente operato super partes e con ferree regole a garanzia degli imputati).

Alcuni autorevoli studiosi, come il mio maestro Gaetano Arangio-Ruiz (che purtroppo ci ha lasciati il 29 ottobre 2022), hanno contestato il potere del C.d.s. di realizzare in tal modo una limitazione delle sovranità statali, potere che a suo parere sarebbe limitato all’intervento armato tramite l’Esercito delle NU contemplato nell’Art. 42 della Carta, meccanismo che gli Stati membri di quell’organo non hanno mai voluto istituire.

Io ritengo però che, se al C.d.s. si è attribuito nel Capo VII il potere di intervenire all’interno degli Stati e anche contro di essi con l’uso della forza armata per il mantenimento della pace e sicurezza internazionali – una misura che, se posta in essere, sarebbe stata estremamente intrusiva nella loro sovranità –, a tale organo si è tanto più attribuito il potere di interferire nella sovranità degli Stati per il perseguimento del medesimo fine anche con misure meno intrusive di un intervento armato, ma sempre contemplate nello stesso Capo: le c.d. misure non implicanti l’uso della forza armata di cui all’Art. 41, ivi sinteticamente formulate solo a titolo esemplificativo.

I due Tribunali ad hoc creati dal C.d.s. hanno ormai chiuso i battenti e alcuni compiti loro assegnati sono stati ereditati dal comune c.d. Meccanismo residuale, diviso in due sezioni.

d) La prassi del C.d.s. di ricercare il ristabilimento della pace con l’istituzione ad hoc di tribunali penali internazionali ha ben presto anch’essa fatto il suo tempo, soprattutto perché la nuova geo-politica mondiale fondata su un’unica Potenza mondiale, non accettata come tale dalla nuova Federazione russa – ciò che era, in verità ben prevedibile, ma che l’Occidente democratico non ha voluto cogliere -, ha riportato in auge il ricorso al c.d. diritto di veto.

Se, in un primo periodo del nuovo raffreddamento fra l’Occidente e la Federazione russa, non si è più avuto l’accordo nel C.d.s. dei cinque membri permanenti per la creazione di Tribunali penali internazionali in altre situazioni di emergenza umanitaria – come quella siriana o quella dei Rohyngia nel Myanmar, per esempio -, sono però passate in seno a tale organo, sempre ai sensi del Capo VII, alcune risoluzioni di accertamento di una minaccia alla, o rottura della, pace internazionale in innegabili situazioni conflittuali in cui venivano anche commessi gravissimi crimini di guerra, crimini contro l’umanità e a volte atti di genocidio.

Ciò ha portato all’emergere di una nuova prassi di giustizia penale “internazionale”, quella dell’istituzione di c.d. Tribunali ibridi (si tratta a volte solo di Camere operanti nel quadro di tribunali interni). Essi sono così chiamati sia perché sono stati creati tramite accordo internazionale bilaterale – Onu (o Ue) e Stato coinvolto –, sia perché integrati in strumenti di giustizia penale interna. Essi sono – o erano – composti di personale – Procuratore, giudici e staff amministrativo – nominato sia dallo Stato sia a livello internazionale (in particolare dal Segretario delle NU): insomma tribunali interni ma internazionalizzati, con caratteristiche di internazionalità più rilevanti di quelle dei Tribunali di Norimberga e Tokyo, non foss’altro perché non creati da Stati vincitori contro i vinti.

E neppure la loro competenza ratione materiae è stata limitata ai soli responsabili di crimini di rilevanza internazionale. Quasi tutti i tribunali ibridi finora creati hanno ricevuto una competenza mista, relativa tanto ai crimini internazionali quanto a particolari reati comuni, con l’applicazione dunque di regole sia internazionali sia nazionali dello Stato coinvolto. Essi sono dunque molto diversi fra loro nel fondamento, nella loro struttura, nella loro competenza.

Rilevano ai nostri fini, soprattutto i seguenti tre c.d. Tribunali, che hanno ricevuto la competenza anche sui crimini internazionali: i Panels speciali del Distretto di Dili, creati nel 2000 dall’amministrazione di transizione delle Nazioni Unite a Timor Est (Untaet) per i gravi crimini commessi tra il 1º gennaio e il 25 ottobre 1999 in quella regione rivendicata dall’Indonesia (operativi fino al 2006); le Camere straordinarie interne alle Corti cambogiane, create nel 2001 per i crimini commessi dai Khmer rossi tra il 17 aprile 1975 al 6 gennaio 1979 (in fase di chiusura); la Corte speciale della Sierra Leone (2002), relativa ai crimini commessi in quel Paese a partire dal 1996, durante la guerra civile scoppiata nel 1991 in quel Paese (operativa fino al 2013, ma alcuni suoi compiti sono stati ereditati da un meccanismo residuale analogo a quello dei due Tribunali per l’ex-Iugoslavia e il Ruanda). Come già i due Tribunali ad hoc per l’ex-Iugoslavia e il Ruanda, nessuno di questi Tribunali ha ricevuto la competenza in materia di aggressione, sebbene, in particolare nella situazione della Sierra Leone, tale crimine avrebbe potuto ritenersi realizzato.

I summenzionati tre strumenti di giustizia penale internazionale hanno tutti avuto a iniziale fondamento una risoluzione delle NU: è così che il C.d.s. ha accertato, ai sensi del Capo VII della Carta delle NU, l’esistenza di una situazione di minaccia alla pace e sicurezza internazionali a Timor-est e in Sierra Leone, mentre l’Assemblea generale delle Nazioni (Agnu) si è dovuta limitare a condannare il genocidio realizzato in Cambogia più di vent’anni prima e a creare una Commissione d’inchiesta, senza poteri in loco, per una prima ricostruzione dei fatti rilevanti. Questi tre Tribunali ibridi sono poi stati creati sulla base di un accordo fra le NU e lo Stato la cui comunità era stata attivamente e passivamente coinvolta nei crimini, e la loro funzione si svolge – o si è svolta – sul territorio di tale Stato.

Amministra essenzialmente una giustizia penale internazionale anche il c.d. Tribunale internazionale per i crimini del Kosovo, con cui si indicano Camere speciali collegate a ogni livello della giurisdizione kosovara. Esse sono state create con uno Scambio di lettere fra Ue e Kosovo (aprile 2014) e una Legge del Parlamento kosovaro (agosto 2015) per la repressione dei crimini commessi durante e dopo il conflitto fra Serbia ed Esercito kosovaro di liberazione nazionale (Uck) e cioè fra il 1 gennaio 1998 e il 31 dicembre 2000: non solo i soliti crimini di rilevanza internazionale, ma anche altri gravissimi crimini oggetto del Rapporto del Consiglio d’Europa del 2011, che sta alla base della creazione di tale meccanismo (in particolare il presunto traffico di organi). Tale Tribunale opera dunque sulla base di norme internazionali e interne, ma è composto soltanto di personale nominato a livello internazionale e ha la sua sede all’Aia (Paesi Bassi).

Un Tribunale penale sui generis è invece quello del Libano: esso è internazionale per il suo fondamento, perché creato ad hoc nel 2007 dal C.d.s. (con qualche astensione, ma con il consenso del Libano), ma non è affatto competente ad accertare le responsabilità per crimini di rilevanza internazionale. La sua competenza si limita ad alcuni gravi atti di terrorismo e a reati comuni commessi in Libano fra il 1 ottobre 2004 e il 12 dicembre 2005 (fra cui l’attentato all’ex-primo Ministro libanese). Anch’esso ha sede a l’Aia. Ci sono poi altre esperienze sui generis di giustizia penale internazionalizzata, che ai nostri fini non rivestono particolare rilevanza.

3. a) Mentre i Tribunali ad hoc creati dal C.d.s. e i Tribunali ibridi ancora operavano, è finalmente arrivata sulla scena della giustizia penale internazionale la Cpi Tale arrivo è stato visto come un traguardo di grande rilievo, sebbene alla sua operatività siano stati posti vari paletti nel corso del lungo, e spesso irto di ostacoli, processo di elaborazione dello Statuto.

Sappiamo che, finalmente, proprio alla scadenza del suo mandato, nella notte fra il 17 e 18 luglio 1998, la Conferenza diplomatica di Roma ha completato il suo complesso lavoro adottando lo Statuto della Cpi con una maggioranza di 120 voti sui 148 votanti, con 21 astensioni e 7 voti contrari. Gli Stati Uniti, nonostante a Roma abbiano votato contro la sua adozione, lo hanno firmato (ad opera di Clinton, il 31 dicembre 2000), ma non ratificato. Assume qui rilievo che anche la Russia e l’Ucraina abbiano votato a favore e abbiano firmato lo Statuto di Roma, rispettivamente il 13 settembre 2000 e il 20 gennaio 2000. Ma né la Federazione russa né l’Ucraina l’hanno ratificato. Lo Statuto è entrato in vigore il 1° luglio 2002 al raggiungimento della 60esima ratifica.

Le ratifiche dello Statuto finora pervenute sono 123 e pochissimi Stati, come l’Ucraina, hanno accettato la giurisdizione della Cpi con dichiarazione ad hoc. È chiaro del perché non arrivi la ratifica dello Statuto di Roma da parte di uno Stato come la Federazione russa, impegnata più di altri in conflitti interni e internazionali, spesso da essa stessa provocati. La Federazione cerca così di ridurre il rischio che la sua leadership e i suoi militari debbano rispondere davanti alla Cpi dei crimini che in questi conflitti vengono commessi: si pensi alla Cecenia non più in conflitto interno, ma sottoposta a un regime ancora più repressivo di quello generale della Federazione, che comporta gravi crimini contro l’umanità finora impuniti; si pensi ai conflitti nel Nagorno-Karabach e in Georgia, dove gravi crimini sembra siano stati commessi in particolare in Ossezia del sud; si pensi al conflitto in Siria, nel quale la Federazione russa è ugualmente coinvolta e i suoi militari sono fortemente sospettati di gravi crimini di guerra; si pensi al conflitto interno nel Donbass in corso a partire dal 2014 e poi internazionalizzatosi ancor prima del 24 febbraio 2022 con il sostegno russo ai separatisti, per poi arrivare a un vero e proprio conflitto interstatale originato dall’aggressione russa contro tutta l’Ucraina.

Non avendo ratificato lo Statuto, né accettato ad hoc la competenza della Cpi, la Russia non è obbligata a cooperare con la Corte neppure nel caso in cui la sua leadership e i suoi militari, nonché i membri delle sue milizie irregolari – si pensi alla Wagner che combatte in molte zone di conflitto – finiscano davanti alla giurisdizione internazionale se sospettati di aver commesso crimini sul territorio di uno Stato che abbia accettato la competenza della Corte vuoi con una dichiarazione ad hoc, come è il caso per i crimini sul territorio ucraino sotto indagine, vuoi con la ratifica dello Statuto, come è nel caso dei crimini in Georgia. In questa seconda situazione, il Procuratore della Cpi ha annunciato il 16 dicembre 2022 di aver concluso le investigazioni contro tre persone che il precedente 30 giugno erano state destinatarie di un mandato di cattura per crimini commessi nel corso dell’occupazione russa, mandato di cattura rimasto naturalmente per ora inevaso.

Meno chiara è la ragione per cui l’Ucraina, uno Stato apparentemente democratico e ora candidato all’ingresso nell’Ue, non abbia finora ratificato lo Statuto di Roma, visto che l’ostacolo sorto nel 2001 davanti alla Corte costituzionale ucraina è stato superato. In effetti, nel giugno 2001 tale Corte aveva ritenuto non conformi alla Costituzione ucraina le disposizioni dello Statuto relative alla complementarità della giurisdizione della Corte rispetto alle giurisdizioni nazionali e quindi affermato che prima della ratifica sarebbe stato necessario un emendamento alla Costituzione (2).

La modifica costituzionale, con l’aggiunta all’Art. 124 del riconoscimento della giurisdizione della Cpi, è intervenuta nel 2016 ed è entrata in vigore il 30 giugno 2019. Non c’è quindi più alcun ostacolo costituzionale alla ratifica ucraina dello Statuto, previa naturalmente l’autorizzazione con legge da parte della Rada.

In effetti, un progetto di legge di autorizzazione è stato preparato ed è arrivato sul tavolo presidenziale. Ma poi la procedura si è arrestata. E’ legittimo il sospetto che il Presidente Zelensky abbia dei cattivi consiglieri ucraini e stranieri… o tema di scontentare qualche potente Stato amico che non ama la Cpi…

Non è però di poco conto nella reticenza della leadership ucraina a ratificare lo Statuto di Roma il fatto che tale ratifica comporterebbe la necessità di contribuire al bilancio della Cpi in un momento di gravissime difficoltà finanziarie per l’Ucraina. Essa ha ora certamente altre priorità rispetto a quella di divenire parte di una istituzione che in ogni caso è già in grado di operare nella determinazione delle responsabilità di chiunque abbia commesso e commetta determinati crimini di guerra, crimini contro l’umanità ed eventualmente atti di genocidio sul territorio ucraino, compresi dunque i membri sia della leadership russa che di quella ucraina.

È del resto un fatto che la partecipazione ucraina allo Statuto integrato con gli emendamenti di Kampala non risolverebbe, come qui di seguito vedremo, il problema della attuale incompetenza della Cpi sul crimine russo di aggressione, per la quale è necessaria anche la partecipazione russa a tale Statuto.

b) Il primo aspetto positivo di questo Statuto è il fatto che esso sia stato elaborato nelle regole sia sostanziali che di procedura sulla base di norme e principi generali di diritto internazionale. Inoltre, il processo di elaborazione si è svolto con il contributo di quasi tutti gli Stati del mondo presenti non solo alla Conferenza di Roma, ma ancor prima nei numerosi Comitati e sotto-Comitati che hanno lavorato a partire dal 1989, nel quadro delle Nazioni Unite, per rendere lo Statuto espressione della coscienza della comunità internazionale nel suo insieme.
Del resto, anche alla Conferenza di revisione di Kampala del 2010 – in cui i poteri decisionali si riconoscevano solo agli Stati parti dello Statuto – hanno partecipato Stati non parti, sebbene solo come osservatori. Ciò nonostante, taluni, come gli Stati Uniti per esempio, hanno avuto un ruolo di rilievo nell’adozione degli emendamenti, purtroppo non sempre positivo, a mio avviso. Non si può dunque negare l’influenza che lo Statuto di Roma ha in quanto tale, cioè quale testo adottato dopo un lungo e meticoloso processo di elaborazione svoltosi, come ho già rilevato, con il contributo di pressoché tutti gli Stati del mondo.

Inoltre, perfino vari Stati che non lo hanno ratificato e che quindi non hanno l’obbligo di dare a esso attuazione sul piano interno, prevedono nei loro codici penali le stesse fattispecie criminose, con le stesse definizioni cioè di cui allo Statuto. Ne sono un esempio, per rimanere sempre sulla situazione ucraina, l’ordinamento russo e quello ucraino, che hanno una normativa nella materia dei crimini internazionali fondamentalmente conforme alle norme di tale Statuto (si veda in proposito il rapido esame che ne ho fatto nel mio Paper del 29 aprile 2022).

Lo Statuto si giova dunque, nell’essenza delle sue disposizioni, di un consenso ad altissima maggioranza, che, in ogni caso, non può essere limitato né agli Stati che hanno votato a favore della sua adozione, né tanto meno agli Stati che lo hanno ratificato.

Può ben dirsi, quindi, che le disposizioni dello Statuto, negli aspetti positivi, come in quelli negativi, sono effettivamente espressione della coscienza della comunità internazionale nel suo insieme e che esse sono, per lo più, codificazione del diritto internazionale penale in vigore.
Anche la giustizia che la Cpi amministra con uno staff a composizione multinazionale – Procuratore, giudici, personale amministrativo -, selezionato secondo quote che rispecchiano il multilateralismo giuridico-culturale, rispecchia le caratteristiche di un tribunale a ragione qualificabile come internazionale, indipendente e imparziale.

b) Tra gli aspetti positivi di contenuto dello Statuto, assume particolare rilievo la disposizione dell’Art. 27, che permette alla Corte di esercitare la sua giurisdizione nei confronti di chiunque, a prescindere da una sua eventuale qualifica ufficiale. Lo Statuto prevede infatti una deroga tanto alle immunità funzionali quanto alle immunità personali, di cui un sospetto reo possa godere davanti alle giurisdizioni nazionali (Art. 27) (3).

Positivo è inoltre il fatto che la competenza oggettiva della Cpi sia stata decisa a Roma anche sul crimine di aggressione, sebbene l’attivazione di tale competenza sia rimasta sospesa fino a un accordo fra gli Stati sulla definizione di tale crimine, che purtroppo allora non era stato raggiunto. Tale accordo c’è poi stato, come sappiamo, alla Conferenza di revisione di Kampala, dove però gli Stati non si sono limitati a darne una definizione (4), ma sono intervenuti anche sulle condizioni di esercizio della giurisdizione, sebbene in modo maldestro e contraddittorio, dando adito in questa materia a interpretazioni contrastanti, come vedremo.

Le condizioni di esercizio della giurisdizione della Cpi sui crimini previsti nello Statuto sono stati tra gli aspetti di maggiore contrasto fra i negoziatori di Roma. Purtroppo, non si sono vinte allora le battaglie condotte contro i paletti che alcuni Stati hanno voluto porre all’operatività di tale giurisdizione, battaglie che sono state condotte da molti fra noi delegati alla Conferenza di Roma in rappresentanza dei c.d. Stati like-minded, e dalle numerose Ong presenti come osservatori, ma che, in rappresentanza dell’opinione pubblica mondiale, lavoravano duramente anch’esse per il migliore Statuto possibile. Mi piace ricordare in proposito il ruolo svolto dall’Ong “Non c’è pace senza giustizia” e personalmente, con grande competenza e impegno, da Emma Bonino.

L’esercizio di tale giurisdizione è stato anzitutto sottoposto all’accettazione della competenza da parte degli Stati che avessero un nesso con i crimini vuoi con la ratifica dello Statuto vuoi con una dichiarazione ad hoc. Non si è infatti accolto il principio della giurisdizione universale assoluta, e cioè in assenza di qualsiasi nesso con uno Stato parte.

Ma ciò era ben prevedibile: la richiesta della delegazione tedesca per l’universalità della giurisdizione almeno per il crimine di genocidio ha avuto una reazione direi isterica da parte del governo statunitense. Non si è accolta neppure l’universalità relativa, basata cioè sulla semplice presenza del sospetto responsabile sul territorio di uno Stato parte. Con una ulteriore sconfitta degli Stati like-minded , in una logica di do ut des, non si è accolto neppure il criterio di giurisdizione della nazionalità della vittima.

Come sappiamo, si sono infatti accolti solo due criteri di giurisdizione, quello territoriale – cioè quello del luogo di commissione del crimine – e quello nazionale attivo – cioè dello Stato di nazionalità del presunto responsabile. Gli Stati like-minded, hanno però vinto una dura battaglia contro il cumulo di questi due criteri, preteso da alcuni Stati capeggiati dagli Stati Uniti, che si erano perfino battuti strenuamente per l’adozione del solo criterio nazionale.

La nostra parziale vittoria e dunque il fatto che i due criteri operino ora in modo alternativo fa sì che, per la competenza della Corte su un crimine, basti che ci sia stata la ratifica dello Statuto o l’accettazione ad hoc della competenza da parte o dello Stato di nazionalità del sospetto autore o dello Stato sul cui territorio il crimine risulti commesso.

Purtroppo, a Roma su queste condizioni di esercizio della giurisdizione rispetto agli Stati parti è poi ancora accaduto qualcosa di increscioso, che attualmente ha una ricaduta anche sulla questione della giurisdizione della Corte in materia di crimine di aggressione.

Con un blitz di pochi Stati, realizzato al momento dell’adozione delle clausole finali relative alle procedure di entrata in vigore dello Statuto e di eventuali futuri emendamenti, si è aggiunta una disposizione sulle condizioni di esercizio della giurisdizione nel caso di emendamenti relativi agli Articoli 5, 6, 7, 8, e cioè introduttivi di nuovi crimini.

È così che nell’Art. 121 (5) si stabilisce, in una prima frase, l’entrata in vigore di un siffatto emendamento a un anno dalla sua accettazione ad opera di ciascuno degli Stati parti e, nella seconda frase, che la Corte potrà esercitare la sua giurisdizione sul nuovo crimine solo se commesso da nazionali e nel territorio di Stati parti che lo abbiano ratificato: si tratta qui del cumulo dei due criteri di giurisdizione, quel cumulo contro il quale gli Stati like-minded avevano vinto la battaglia per poi vederlo ricomparire pressoché surrettiziamente per gli eventuali nuovi crimini.
Sull’applicabilità al crimine di aggressione dell’Art. 121 (5) le posizioni degli Stati parti si erano però divise a Kampala: numerosi fra essi facevano valere che il crimine di aggressione era già previsto nell’Art. 5 e chiedevano dunque l’applicazione a tali emendamenti dell’Art. 121(4), che avrebbe permesso la loro entrata in vigore per tutti gli Stati parti al raggiungimento del deposito di sette-ottavi di accettazioni: ciò avrebbe escluso automaticamente l’applicazione a tale crimine del cumulo dei criteri di giurisdizione rispetto agli Stati parti.

Tale posizione è però risultata sconfitta e quindi la procedura dell’Art. 121 (5) è stata decisa a Kampala per tutti gli emendamenti e finora solo 44 Stati hanno accettato quelli relativi al crimine di aggressione, mentre gli emendamenti relativi all’Art. 8 hanno ricevuto anche un numero inferiore di accettazioni.

Gli emendamenti adottati all’Art. 8 riguardano tutti il contesto del conflitto interno, essendosi aggiunte fattispecie criminose che erano già previste per il contesto del conflitto internazionale. L’applicazione a essi del cumulo dei criteri di giurisdizione rispetto agli Stati parti non limita dunque la giurisdizione della Cpi in ragione del fatto che lo Stato territoriale e quello nazionale coincidono e quindi il cumulo è già in re ipsa.

Per futuri emendamenti degli Articoli 5, 6, 7, e per quelli dell’Art. 8 che non fossero relativi al contesto del conflitto interno, l’applicazione del cumulo dei criteri limiterà però la giurisdizione della Cpi, comportando così uno squilibrio nel sistema del suo esercizio: per i “vecchi” crimini di guerra, crimini contro l’umanità e atti di genocidio, i due criteri si applicheranno in modo alternativo e per i “nuovi” in modo cumulativo!
Il primo errore viene dunque dalla Conferenza di Roma che ha spezzato l’uniformità delle condizioni di esercizio della giurisdizione della Corte dando soddisfazione a chi, come gli Stati Uniti, per tutti i lavori preparatori dello Statuto si era battuto anzitutto per la previsione del solo criterio nazionale e dopo la sconfitta su questo ha condotto la sua battaglia per il cumulo dei due criteri, nazionale e territoriale. Sconfitto anche su questo, dopo aver surrettiziamente imposto in una clausola finale il cumulo per i crimini nuovi, tale Stato ha anche votato contro l’adozione dello Statuto! La responsabilità di questo pasticcio ricade naturalmente sugli Stati like-minded che hanno permesso ciò piuttosto che sugli Stati Uniti, che perseguono sempre, come tutti gli Stati che contano, i loro egoistici interessi di potenza. E il loro interesse era, da una parte, di evitare la perseguibilità, sulla base del criterio di nazionalità, dei propri cittadini in casi di sospetti crimini internazionali a loro carico, e, dall’altra, di attenuare il rischio che nel futuro fosse introdotto nello Statuto di Roma il crimine transnazionale di terrorismo internazionale, per il quale tale Stato si ritiene depositario della missione repressiva.

Insomma, la verità è che la seconda frase di cui all’Art. 121 (5) andrebbe cancellata con un nuovo emendamento, per la cui entrata in vigore sarebbe applicabile la procedura alleggerita dell’Art. 121 (4). È del resto pacifico che una disposizione relativa alle condizioni di esercizio della giurisdizione della Cpi non può stare fra le clausole finali!

c) Ma torniamo al nostro problema centrale: la questione dell’applicazione del cumulo dei due criteri a un crimine, quello di aggressione, che si consuma del tutto sul territorio di uno Stato straniero, con la conseguenza che dall’applicazione della famigerata seconda frase risulterebbe una drastica limitazione della giurisdizione della Cpi su di esso.

Ed è per questo che la scelta della procedura rafforzata di entrata in vigore dei relativi emendamenti ha comportato una nuova netta divisione fra gli Stati presenti a Kampala: c’era chi riteneva e ritiene tuttora automaticamente applicabile al crimine di aggressione anche la seconda frase dell’Art. 121 (5), e chi contrasta tale posizione con argomenti diversi.

A mio avviso, è necessario in questo caso ricostruire la storia della scelta fatta a Kampala della procedura rafforzata di entrata in vigore degli emendamenti sul crimine di aggressione, storia cui si appoggiano gli Stati contrari all’applicazione della seconda frase dell’Art. 121(5) (io ero a quella Conferenza in rappresentanza della Commissione di Diritto internazionale umanitario e quindi non partecipavo ai negoziati ufficiali, ma si sa che i negoziati si tengono soprattutto nei “corridoi”…).

È un fatto che allora si era cercato un compromesso fra le due dette posizioni contrastanti e io concordo con gli Stati che sostengono che da questo compromesso è emersa, da un lato, l’accettazione ad opera degli uni, e loro malgrado, della giurisdizione della disposizione sul cumulo dei due criteri rispetto agli Stati non parti dello Statuto, di cui all’Art. 15bis (5) aggiunto a Kampala, e, dall’altro, l’accettazione ad opera degli altri, loro malgrado, del regime generale, e cioè quello dell’operare alternativo dei due criteri rispetto agli Stati parti.

Tale compromesso emerge evidente dalle due disposizioni di cui all’Art. 15bis (4): qui, infatti, con riguardo alla giurisdizione della Cpi sul crimine di aggressione rispetto agli Stati parti non solo si rinvia espressamente al regime generale di cui all’Art. 12 dello Statuto, ma si prevede anche la possibilità per tali Stati di depositare una dichiarazione di opting-out, cioè di esclusione della competenza della Cpi sul crimine derivante da un loro eventuale futuro atto di aggressione.

Si è cioè stabilita a Kampala, con una norma specifica, la possibilità per gli Stati parti di proteggersi dalla competenza della Corte sul crimine di aggressione proprio perché rispetto a essi si applica il regime alternativo dei due criteri di giurisdizione. Se si fosse deciso di applicare il cumulo non ci sarebbe stato bisogno dell’opting-out.

Naturalmente si pone un problema di contraddizione fra il cumulo di cui alla seconda frase dell’Art. 121 (5) e le due disposizioni di cui all’emendamento di Kampala introdotto nello Statuto con l’Art. 15 bis (4). E tale contraddizione avrebbe certamente potuto affrontarsi e risolversi in modo più chiaro a Kampala, ma sappiamo bene che i compromessi portano spesso a soluzioni ambigue.

Ciò non significa che l’ambiguità non possa affrontarsi e risolversi anche in questo caso con l’applicazione di principi generali del diritto, cui ci si riferisce esplicitamente nell’Art. 21 dello Statuto relativo alla “Legge applicabile”.

Ebbene, fra vari argomenti utilizzati dagli Stati e dai giuristi contrari alla limitazione della giurisdizione della Cpi sul crimine di aggressione rispetto agli Stati parti, alcuni in verità poco convincenti, io mi pongo fra coloro secondo i quali le due disposizioni specifiche al crimine di aggressione, di cui all’Art. 15bis(4), prevalgono sulla disposizione generale, di cui all’Art. 121(5) seconda frase, che prevede invece il cumulo per tutti i nuovi crimini.

Ammesso che il crimine di aggressione sia nuovo anch’esso, a Kampala si è però scelto di fare eccezione per tale crimine al cumulo dei criteri di giurisdizione derivante dall’applicazione della procedura di cui all’Art. 121 (5) rispetto solo agli Stati parti e di prevedere poi specificamente il cumulo rispetto agli Stati non parti nell’Art. 15bis (5).

Si è quindi fatto affidamento sul principio generale del diritto lex specialis derogat generali. E, correttamente, la norma speciale è stata introdotta fra le disposizioni relative all’Esercizio della giurisdizione sul crimine di aggressione, che è per l’appunto l’intitolazione dell’Art. 15bis.

d) Purtroppo, però, alcuni Stati continuano a cercare, per loro interessi di potenza, altre soluzioni ambigue. È così che fra gli interessi di potenza c’è anche la loro volontà ipocrita di voler essere parti dello Statuto di Roma, ma di non volere la giurisdizione della Cpi sul crimine di aggressione e al contempo di non volere essere costretti, a questo fine, a fare l’opting-out.

Da quanto gli Stati esprimono “nei corridoi dei negoziati”, appare che tale meccanismo darebbe troppa visibilità al loro rifiuto di accettare la giurisdizione della Cpi sul crimine di aggressione che derivi da un proprio atto di aggressione. Essi ne perderebbero in reputazione e credibilità internazionale, valori cui gli Stati tengono moltissimo ai fini dei loro interessi politici ed economici.

È soprattutto in ragione di questa reticenza degli Stati parti di servirsi della clausola dell’opting-out per escludere la propria accettazione della competenza della Corte in materia di crimine di aggressione, che, purtroppo, la Risoluzione ICC-ASP/16/Res.5, adottata dall’ASP il 14 dicembre 2017 ai fini dell’attivazione della giurisdizione della Cpi su tale crimine (qui decisa dal luglio 2018), si è anche occupata di qualcosa che non le competeva.

Su iniziativa di alcuni Stati che contano più di altri e senza un’opposizione formale, durante il voto con la procedura del consensus, dei like-minded favorevoli a una interpretazione non riduttiva della giurisdizione della Corte sul crimine in questione, al punto 2 della Risoluzione si è “confermato” (sic!) non solo che gli emendamenti di Kampala su tale crimine entrano in vigore con la procedura rafforzata di cui all’Art. 121(5) – e ciò era ormai pacifico -, ma anche, purtroppo, che “nel caso di un rinvio statale o di un’indagine proprio motu la Corte non può esercitare la propria giurisdizione sul crimine di aggressione se commesso da un nazionale o sul territorio di uno Stato parte che non abbia ratificato o accettato tali emendamenti”.

È significativo però che subito dopo non si sia potuto fare a meno di tener conto delle posizioni anche degli Stati parti che non condividevano questa conferma del cumulo dei due criteri di giurisdizione. Si è infatti riaffermato al punto 3 il contenuto sia del par. 1 dell’Art. 40 che quello del par. 1 dell’art. 119 dello Statuto, relativi rispettivamente all’indipendenza giudiziaria dei giudici della Corte e all’esclusività della competenza di questa su qualsiasi controversia relativa alle sue funzioni giudiziarie. Con tale riaffermazione si è voluto lasciare aperta la questione della giurisdizione della Corte sul crimine di aggressione rispetto agli Stati parti – cumulo sì/cumulo no –, rimettendola nelle mani della Corte stessa.

Ciò avrebbe dovuto essere fatto senza alcuna conferma da parte dell’Asp su una questione sulla quale tale organo non ha competenza, potendo occuparsi, ai sensi dell’Art. 119, par. 2, solo di controversie diverse da quelle di natura giudiziaria. Purtroppo, gli Stati utilizzano spesso a loro piacimento gli strumenti che creano, anche in deroga alle funzioni che essi assegnano a tali strumenti in disposizioni pattizie e quindi vincolanti.

A ogni buon conto, un sistema giuridico, come quello creato con lo Statuto di Roma, non può che essere interpretato secondo una coerenza che è quella tipica del diritto come tale. In particolare, uno strumento giudiziario come la Cpi, che ha l’esclusività dell’interpretazione del proprio Statuto, non può ricorrere ad argomenti che facciano prevalere gli interessi degli Stati all’interesse della logica giuridica.
In una interpretazione coerente ad opera della Corte – e dunque favorevole all’applicabilità al crimine di aggressione del regime generale di giurisdizione almeno rispetto agli Stati parti – confidano dunque quegli Stati parti, numerosi, che si sono battuti, alla sessione del 2017 dell’ASP, per l’inserimento al punto 3 del rinvio alla stessa Corte della soluzione della questione ancora controversa su tale giurisdizione E su tale interpretazione coerente confido anch’io.

e) Resta, invece, senza via di scampo, salva la possibilità di una modifica della disposizione dell’Art. 15bis (5), l’applicazione del cumulo dei due criteri di giurisdizione rispetto agli Stati non-parti.

Anche se l’Ucraina divenisse parte dello Statuto integrato con gli emendamenti di Kampala, questa norma proteggerebbe pur sempre sia i membri di alto livello delle Forze armate russe, regolari e irregolari, sia la leadership del Cremlino dalla competenza della Cpi sui crimini di aggressione che si commettono sul territorio dell’Ucraina.

Tale ostacolo potrebbe essere teoricamente superato solo tramite un rinvio della situazione ucraina alla Cpi ad opera del C.d.s. ai sensi del Capo VII della Carta delle Nazioni Unite (NU) e dell’Art. 13(b) dello Statuto di Roma. Tale rinvio funge anche, come sappiamo, quale determinazione autoritativa della competenza della Corte rispetto a qualsiasi situazione oggetto del rinvio e a qualsiasi crimine che vi si commetta, dunque quello di aggressione compreso. Tale ipotesi è però del tutto irrealistica nel caso di specie, perché un progetto di rinvio alla Corte della attuale situazione ucraina sarebbe bloccato dal c.d. diritto di veto di cui gode la Federazione russa quale membro permanente di tale organo (e fors’anche dal veto della Cina).

È quindi evidente l’impasse di fronte alla quale ci si trova per far cessare l’impunità dell’attuale leadership russa per il crimine di aggressione, che neppure le poche giurisdizioni nazionali competenti in materia, come quella ucraina, sembrano intenzionate a perseguire.

5. Nel discorso in video-conferenza davanti all’Agnu, il 21 settembre 2022, il Presidente ucraino ha parlato del progetto di creazione del tribunale sul crimine di aggressione che la sua popolazione sta subendo. Egli ha sostenuto che « la Russia deve pagare per questa guerra » e che la creazione del tribunale “invierà un messaggio a tutti gli aggressori potenziali nel senso che essi sono tenuti a rispettare la pace”. Si tratta di parole a mio avviso di eccessivo ottimismo. Con lo stesso ottimismo, il giorno successivo egli ha annunciato l’istituzione a Kiev di un gruppo di lavoro, composto dal Ministro degli affari esteri Kuleba, da quello della giustizia, Malyuska e dall’Ambasciatore ucraino per il Diritto internazionale umanitario Korynevytch. Questo progetto ha ricevuto il sostegno di Stati e organizzazioni internazionali, nonché di Ong che operano nei settori dei diritti umani e del Diritto internazionale umanitario, ma tutto mi sembra ancora in alto mare.Alcune organizzazioni internazionali hanno anche presentato delle opzioni per la sua costituzione, rifacendosi, sebbene in modo molto generico ad alcuni strumenti precedenti di giustizia penale internazionale o internazionalizzata.

Certamente non percorribile è la via dei Tribunali di Norimberga e Tokyo, che la comunità internazionale ormai rifiuta. Peraltro, tale via era relativa a una situazione ben diversa da quella della guerra russo-ucraina: il territorio degli Stati aggressori era occupato dai vincitori; gli occupanti della Germania e del Giappone hanno dunque avuto la possibilità tanto di catturare la maggioranza dei sospettati dei crimini, compresso quello c.d. contro la pace, quanto di organizzare i Tribunali in loco e a conflitto ormai concluso, ciò che ha facilitato la raccolta delle prove documentali e l’audizione dei testimoni. Nella situazione russo-ucraina, invece, il territorio dello Stato aggressore non è occupato dai vincitori, anche perché nella guerra in corso non ci sono ancora vincitori e vinti; anzi è lo Stato aggressore che occupa, sebbene parzialmente, il territorio dello Stato vittima.. Neppure percorribile è la via della creazione di un tribunale ad hoc ad opera del Consiglio di Sicurezza sul modello dei Tribunali per la ex-Iugoslavia e per il Ruanda. Tale strada è bloccata dall’inevitabile diritto di veto dello Stato aggressore (e fors’anche della Cina) e a ogni buon conto per i crimini della ex-Iugoslavia e del Ruanda si è potuta avere anche la cooperazione, non sempre eccellente, ma in ogni caso significativa perché proveniente dagli Stati la cui popolazione era non solo vittima, ma anche attivamente coinvolta nel conflitto.

a) Vediamo dunque le proposte che hanno un margine di fattibilità.

Con la Risoluzione n. 2436(2022) adottata già il 28 aprile 2022, con la sola astensione di una deputata turca, credo che l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (Pace) sia stata il primo organismo interstatale a proporre l’istituzione di un tribunale ad hoc per il crimine di aggressione russo contro la popolazione ucraina che si addebita alla leadership politica e militare della Federazione russa.
Nella Risoluzione essa ha sollecitato la creazione urgente, ad opera soprattutto degli Stati like-minded, di un tribunale ad hoc a carattere internazionale. Ha affermato che tale tribunale dovrebbe applicare la definizione del crimine di aggressione “stabilita dal diritto internazionale consuetudinario” e “ispiratrice della definizione contenuta nell’Articolo 8bis dello Statuto di Roma”, dovrebbe avere “il potere di emanare mandati Internazionali di arresto” e “non essere limitato da immunità di Stato o immunità di Capi di Stato o di governo o di altri organi statali”. Tale Tribunale dovrebbe avere il beneplacito dell’Agnu e il sostegno del Consiglio d’Europa, l’Ue e di altre Organizzazioni Internazionali. Esso dovrebbe avere sede a Strasburgo “in vista di possibili future sinergie con la Corte europea dei Diritti umani”.

Tale sollecitazione è stata reiterata dall’Assemblea parlamentare agli Stati membri e agli Stati osservatori del Consiglio d’Europa il 26 gennaio 2023 (Risoluzione 2482 (2023)). Significativo qui l’appello a tali Stati a « prendere le misure necessarie per modificare il regime giurisdizionale dello Statuto della Cpi… ». A questo proposito essa suggeriva due opzioni: quella di sopprimere “i limiti esistenti della competenza sul crimine di aggressione, al fine di renderlo coerente con gli altri crimini di sua competenza », oppure quella di « autorizzare i rinvii alla Cpi ad opera dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite allorchè il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è bloccato”. Questa seconda opzione evoca chiaramente, e a sproposito (si veda qui di seguito su questo aspetto), la Uniting for Peace.
Secondo la Pace «questi cambiamenti rinforzerebbero la coerenza, la legittimità e l’universalità d’insieme della giustizia penale internazionale, in particolare con riguardo al crimine di aggressione». A suo giudizio, «la proposta di creare un tribunale speciale per rispondere all’aggressione criminale in corso contro l’Ucraina e la riforma a lungo termine dello Statuto della Cpi che permettano alla Corte di perseguire e di punire le aggressioni (future) analoghe non si escludono a vicenda e dovrebbero essere perseguite parallelamente». In un documento d’informazione inviato ai governi degli Stati membri e osservatori e reso pubblico il 31 gennaio 2023, la Segretaria generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejčinović Burić, valuta criticamente alcune opzioni sul piano politico e giuridico, ma ciò nonostante à favorevole alla creazione di un tribunale ad hoc ( SG/Inf(2023).

b) Iniziative analoghe sono state prese a livello dell’Ue

Il 30 novembre 2022, la Presidente della Commissione ha proposto, a nome della Commissione, un tribunale speciale per il crimine di aggressione russo e ha fatto riferimento a due possibili opzioni.

Merita anzitutto rilevare che a proposito della ragione posta alla base di questa iniziativa ci sarebbe l’opinione espressa, secondo quanto riportato dai media, in un documento preliminare di tale organo europeo, sul fatto che la “Cpinon potrebbe giudicare il presidente russo Vladimir Putin, il primo ministro e il ministro degli Esteri, che beneficiano di immunità durante il loro mandato”, mentre “un tribunale ad hoc competente sui crimini di aggressione permetterebbe di perseguire i più alti dirigenti russi che altrimenti godrebbero di una immunità”.
Sempre secondo i media, in reazione a tale documento di cui il Procuratore della Cpi avrebbe avuto informazione, costui avrebbe reagito in modo molto duro, accusando la Commissione di ignorare il sistema della Cpi: e’ illuminante in proposito un articolo di Euronews scritto a margine dell’Assemblea degli Stati Parti della Cpi il 6 dicembre 2022, in cui si descrive la reazione del Procuratore alle comunicazioni della Presidente della Commissione Europea. Le affermazioni riportate, se veramente contenute in un documento della Commissione, rivelerebbero effettivamente la totale ignoranza sia del sistema della Cpi sia della sentenza della Cig nel caso “Yerodia” (v. mio paper del 29 aprile su Formiche.net).

Ma torniamo alle due opzioni annunciate dalla presidente della Commissione il 30 novembre 2022: gli Stati membri dell’Unione dovrebbero scegliere fra un tribunale speciale indipendente e internazionale fondato su un trattato internazionale o un tribunale speciale integrato in un sistema di giustizia nazionale con giudici internazionali, e quindi un tribunale ibrido.
Per ciascuna opzione, ha aggiunto la presidente, sarebbe essenziale il sostegno dell’Onu.

Ad appoggiare l’iniziativa della Commissione europea è intervenuto il 19 gennaio 2023 il Parlamento europeo che, riferendosi proprio all’annuncio del 30 novembre e al sostegno arrivato all’iniziativa da parte del Consiglio europeo il 15 dicembre 2022, ha esortato “gli Stati membri e il Servizio europeo per l’azione esterna a utilizzare tutti i mezzi a loro disposizione per rafforzare la cooperazione con l’Assemblea generale delle Nazioni Unite e costruire coalizioni al suo interno, al fine di adoperarsi a favore di una maggioranza che possa sostenere un’eventuale iniziativa delle Nazioni Unite volta a istituire un tribunale speciale”. Tale organo ha anche ribadito il suo “pieno sostegno alle attività della Cpi che contribuiscono a porre fine all’impunità degli autori dei crimini più gravi, motivo di allarme per la comunità internazionale”.

È significativo poi il fatto che esso abbia anche invitato, da una parte, “l’Unione europea ad adottare una posizione comune in merito al crimine di aggressione” e, dall’altra, alcuni Stati europei ancora inattivi a ratificare gli emendamenti di Kampala e, infine, l’Ucraina a “diventare ufficialmente membro della Cpi”.

I lavori preparatori dell’Ue sul tribunale dovrebbero iniziare senza indugio e concentrarsi sulla definizione delle sue modalità in cooperazione con l’Ucraina, oltre a sostenere le autorità ucraine e internazionali nel reperimento delle prove da utilizzare nel tribunale.
Secondo il Parlamento, un tribunale speciale, che dovrebbe perseguire non solo la leadership politica e militare russa, ma anche quella dei suoi alleati, bielorussa in particolare, “colmerebbe le attuali lacune della giustizia penale internazionale” e invierebbe sia alla società russa che alla comunità internazionale un segnale molto chiaro del fatto che la leadership politica e militare russa, Putin compreso, possono essere condannati.

La Risoluzione parlamentare è stata adottata con 472 voti favorevoli, 19 contrari e 33 astensioni.

c) Insomma, secondo gli organismi europei, due modelli opzionali dovrebbero sostanzialmente seguirsi nella creazione di un tribunale penale speciale per il crimine di aggressione russo contro la popolazione ucraina.

Vi è anzitutto la proposta che mira alla creazione di un tribunale speciale con lo stesso strumento formale che sta alla base della CPI per farne, secondo quanto intendono i proponenti un tribunale internazionale.

Ci sarebbero però alcune differenze di rilievo rispetto al processo di creazione della Cpi.

Lo Statuto del tribunale speciale verrebbe infatti elaborato e adottato da un gruppo di Stati, credo essenzialmente una parte dei membri del Consiglio d’Europa, con il consenso dell’Ucraina. Dell’accordo non farebbero certamente parte alcuni Stati europei vicini alla Federazione russa e probabilmente neppure tutti gli Stati membri dell’Ue.

È vero che tale tribunale opererebbe in sostanza secondo il criterio territoriale di giurisdizione – cioè sulla base del solo consenso dello Stato vittima dell’aggressione -, ponendosi dunque in linea con l’ottica del regime generale di giurisdizione della Cpi.
Ma è anche vero che la Cpi è un tribunale penale veramente internazionale perché creato, come già rilevato, con l’apporto di tutta la comunità internazionale e offre dunque elevatissime garanzie di imparzialità. L’applicazione in questo contesto del criterio territoriale non crea quindi alcun sospetto di parzialità.

Nel caso del tribunale speciale proposto per l’aggressione russa si tratterebbe invece pur sempre di un tribunale speciale creato da alcuni Stati, che – non si può negare – sono in questo momento storico – e non solo sostanzialmente – i nemici dello Stato aggressore, quelli che permettono all’Ucraina di difendersi con le armi che essi le inviano. In questo caso, quindi, l’applicazione del criterio territoriale può essere vista da una parte dell’opinione pubblica mondiale e certamente dalla stragrande maggioranza della società russa come un’ulteriore sanzione europea contro l’attuale nemico russo.

Quanto poi al “beneplacito” da parte dell’Agnu per un tale Tribunale, al fine, secondo questa proposta, di darle qualche elemento di maggiore internazionalità, dubito che si raggiungerebbe in seno a tale organo quella maggioranza che ha portato alla Risoluzione del 2 marzo 2022 di condanna dell’aggressione russa.

Un siffatto tribunale sarebbe dunque emanazione solo degli Stati che in questo momento sostengono lo Stato aggredito, in sostanza degli Stati nemici della Russia.

Se è vero che un tribunale siffatto non amministrerebbe la giustizia dei vincitori sui vinti, visto che la Russia non è sconfitta, è pur vero che si tratterebbe in ogni caso di una giustizia a senso unico, in direzione di una parte nel conflitto – l’aggressore – ad opera della numerosa parte avversa più o meno alleata con l’aggredito.

Ciò avvicinerebbe dunque tale tribunale più a un tribunale comune del tipo di quelli di Norimberga e Tokyo, e cioè uno strumento di parte – modello che si è ritenuto non più percorribile – piuttosto che a uno strumento espressione della comunità internazionale nel suo insieme e quindi veramente internazionale.

Quanto alla seconda proposta, osservo che i Tribunali ibridi di cui ho parlato, hanno alla base della loro legittimità sostanziale una coincidenza fra lo Stato di commissione dei crimini e lo Stato nazionale dei sospetti autori: così per i Panel di Timor-est, per le Camere straordinarie della Cambogia, per il Tribunale sui crimini della Sierra Leone (l’ex-Presidente liberiano Taylor è stato condannato per aver armato gli insorti della Sierra Leone).

Anche l’istituzione e le attività dei due Tribunali misti del Libano e del Kosovo si basano sul consenso rispettivamente dello Stato coinvolto attivamente e passivamente nei crimini – il Libano – e degli Stati coinvolti – Serbia e Kosovo (o del solo Stato coinvolto attivamene e passivamente, se si ritiene che il Kosovo debba ancora considerarsi una Provincia serba…).

È pacifico quindi che un tribunale penale per il crimine di aggressione in Ucraina si allontanerebbe dalle caratteristiche specifiche comuni dei Tribunali ibridi e cioè quella dell’accordo con lo Stato la cui stessa comunità era coinvolta sia attivamente nei crimini, sia passivamente come vittima.

Insomma, è evidente che il tribunale speciale per i crimini russi sarebbe in ogni caso un Tribunale sui generis che non seguirebbe alcun precedente modello.

Ma al di là della questione poco rilevante se tale tribunale seguirebbe o meno un modello precedente, per un tribunale ucraino-internazionalizzato si porrebbe anche un ostacolo costituzionale, come rileva la Segretaria generale del Consiglio d’Europa nel Documento d’informazione agli Stati. L’Art. 125 della Costituzione ucraina stabilisce infatti che “L’istituzione di tribunali straordinari e speciali non è permessa”.

Anche se questo ostacolo potesse essere in qualche modo superato, un siffatto tribunale desterebbe maggiori sospetti di parzialità di un tribunale creato con accordo multilaterale fra Stati amici dell’Ucraina senza la partecipazione dell’Ucraina, ma solo con il suo consenso.

d) Proprio in ragione del sospetto di parzialità che potrebbe accompagnare la creazione di un tribunale speciale per il crimine di aggressione russo ad opera dei Paesi europei amici dell’Ucraina – con la partecipazione o meno di questo Stato -, c’è chi ipotizza che l’Assemblea generale delle NU crei tale tribunale ai sensi della Risoluzione Uniting for Peace (Ris. 377/V del 3 novembre 1950).

Ma tale via è giuridicamente non percorribile, perché l’Agnu non gode di un potere siffatto. È vero che la Risoluzione del 1950 ha affrontato il blocco del C.d.s. facendosi carico di intervenire in situazioni di minaccia alla o rottura della pace oppure di atto di aggressione.
Coloro che propongono l’utilizzazione di questa via ignorano però che con la c.d. Uniting for Peace l’Agnu si è limitata a raccomandare agli Stati l’utilizzazione di tutti i mezzi necessari, perfino il ricorso alla forza armata, per ristabilire e mantenere la pace e sicurezza internazionali allorchè il Consiglio non fosse in grado di farsi carico della sua primaria responsabilità in questo campo per via del ricorso al diritto di veto da parte di Membri permanenti. Con la stessa Risoluzione essa ha inoltre creato una Commissione speciale per il monitoraggio delle tensioni internazionali, ciò che essa aveva del resto il potere di fare ai sensi dell’Art. 22 della Carta che prevede per tale organo il potere di auto-organizzarsi creando organi sussidiari.

Salvo che per l’approvazione del bilancio dell’Organizzazione e la distribuzione delle quote dei contributi statali, la Carta non prevede però che le risoluzioni dell’Agnu abbiano effetti vincolanti e tanto meno effetti intrusivi nei poteri sovrani degli Stati, come lo sarebbe se essa creasse un tribunale penale speciale limitativo della sovranità degli Stati membri nell’amministrazione della giustizia penale.
Sulla base della Uniting for Peace, l’Agnu potrebbe dunque soltanto raccomandare agli Stati membri delle NU la creazione di un tribunale speciale tramite accordo internazionale, raccomandare a essi di fornire le risorse necessarie a tal fine e raccomandare al Segretario generale NU di dare a essi tutta l’assistenza necessaria per facilitare la creazione di tale tribunale.

Della mancanza in capo all’Agnu del potere di creare un tribunale speciale per il crimine di aggressione russo sono ben consapevoli gli Stati Uniti, che attraverso la loro ambasciatrice per la giustizia penale globale, Beth Van Schaack, hanno proposto anch’essi due opzioni: un trattato bilaterale tra Ucraina e Nazioni Unite, “consacrato in qualche modo dall’Assemblea generale, che porti il sostegno politico dell’intera comunità internazionale all’istituzione di un tribunale autonomo”, secondo dunque l’ottica dei primi tre Tribunali ibridi di cui ho parlato (soprattutto quello della Cambogia), oppure un tribunale ibrido sul modello di quello del Kosovo, istituito dall’Ucraina con l’Ue o il Consiglio d’Europa, ma possibilmente con il beneplacito dell’Agnu.

Anche queste opzioni presentano alcuni aspetti critici da me già rilevati per le altre, come soprattutto l’ostacolo costituzionale.

e) Io vedo però anche altre difficoltà nella scelta di affidare a un tribunale speciale la repressione del crimine russo di aggressione.
Anzitutto vedo che le risorse finanziarie per la creazione e l’operatività di un tribunale comune o internazionale o interno/internazionale sono sempre molto elevate e, nel caso di specie, tali risorse potrebbero contribuire più utilmente, a mio avviso, sia alla ricostruzione dell’Ucraina, se non sarà occupata tutta dalla Federazione russa, sia ad accelerare le procedure davanti alla CPI sulle altre tre categorie di crimini che si commettono sul territorio dell’Ucraina.

Noto in proposito che il procuratore ha fatto valere che il peso finanziario di un nuovo Tribunale speciale devierebbe verso di esso i finanziamenti promessi alla Cpi e rallenterebbero dunque queste procedure, soprattutto quelle relative ai crimini in Ucraina.
Ritengo inoltre che, in questo momento storico, in cui sembra che la Federazione russa stia riprendendo un po’ di energia militare per poter forse sconfiggere l’Ucraina – permettetemi di augurarmi di no –, la creazione di un siffatto tribunale renderebbe ancora più difficile il perseguimento della possibilità di arrivare a un cessate-il-fuoco, un obiettivo che non va mai abbandonato e che invece attualmente nessuno sembra voler più perseguire, nonostante le notizie nefaste che ci vengono dal terreno della guerra.

Io capisco il pessimismo e la mancanza di fiducia nei confronti della leadership russa per qualsiasi tentativo diplomatico di arrivare a un negoziato o a un temporaneo cessate-il-fuoco al fine di facilitarlo, ma non si può non continuare a perseguire questi obiettivi, pur sostenendosi l’Ucraina con l’invio di armi.

f) Merita da ultimo di essere menzionata un’altra via pure ipotizzata per la repressione del crimine russo di aggressione, la quale potrebbe in parte risolvere alcune delle difficoltà legate alla creazione di un tribunale speciale secondo le opzioni finora considerate.
Mi riferisco alla possibilità di creare una Camera speciale della Cpi per la condotta della procedura di 1a istanza e di utilizzare la Camera di appello di tale Corte quale 2a istanza/ cassazione (le due funzioni che essa attualmente svolge).

Si tratterebbe certamente di una soluzione razionale sotto vari aspetti – costo, indipendenza, imparzialità (in ogni caso non pretesti per la Russia di tacciarla di parzialità), utilizzazione di un sistema che raccoglie, come si è visto, il consenso della comunità internazionale nel suo insieme, e che inoltre è già rodato.

Non manca neppure in questa proposta qualche difficoltà: potrebbe essere necessario apportare varie modifiche allo Statuto o almeno alla parte relativa alle competenze dell’Asp, che certamente non ha attualmente la possibilità di intervenire in modo così radicale da poter creare una Camera speciale e affidare alla Camera di appello ulteriori funzioni.
Questa difficoltà potrebbe forse in parte superarsi con la creazione di un tribunale speciale di sola prima istanza, che potrebbe poi concludere un accordo con la Cpi relativo all’utilizzazione della sua Camera di appello e di altri suoi organi.

Breve conclusione

Nell’affrontare la questione della necessaria repressione del crimine di aggressione che la leadership russa perpetra contro la popolazione ucraina e della possibile creazione di un tribunale speciale a tal fine, non va trascurato in ogni caso il fatto che l’attuale crimine di aggressione russo non è il solo a dover essere fronteggiato dalla comunità internazionale con la sua repressione.

Affrontare la questione della repressione di questo solo crimine di aggressione significa restare indifferenti sia rispetto ad altre situazioni di aggressione che pure in questo momento storico già viviamo sia ai rischi che corriamo di trovarci ben presto anche in ulteriori casi di aggressione perfino contro tutto l’occidente democratico.

Pur creando un tribunale speciale per l’attuale crimine russo – e senza che questo obiettivo ci allontani da quello più generale –, abbiamo il dovere morale di affrontare la questione della repressione del crimine di aggressione in termini generali e quindi nel quadro del sistema di quell’organo che la comunità internazionale ha inteso creare e ha creato con una prospettiva di universalità della sua operatività.
Dobbiamo cioè affrontare la questione nel quadro del sistema della Cpi per risolverla una volta per tutte.

E la via per affrontarla e risolverla in modo generale e inoltre rispetto sia agli Stati parti dello Statuto sia agli Stati-non parti esiste in questo quadro ed è, a mio modesto avviso, la più coerente e la più celere, naturalmente se c’è la buona volontà soprattutto degli Stati parti della Cpi.
La via è quella, da una parte, dell’interpretazione ad opera della Cpi delle disposizioni rilevanti dello Statuto a favore dell’applicazione del regime generale al crimine di aggressione rispetto agli Stati parti, e, dall’altra, al “ripensamento” sull’emendamento deciso a Kampala su questo crimine e di cui all’Art. 15bis(5) rispetto agli Stati non parti.

Il detto “ripensamento” dovrebbe però intervenire prima della detta interpretazione, perché per questa sarebbe necessario un impulso da parte del Procuratore per la richiesta di un parere della Camera preliminare, come è già avvenuto nel caso del crimine di deportazione dei Rohingya. Ma tale impulso potrebbe arrivare solo se l’Ucraina avesse ratificato lo Statuto integrato con gli emendamenti di Kampala e se fosse cancellato il cumulo di cui all’Art. 15bis(5) e di alcune parti dell’Art. 15 bis (4), come proposto sin da marzo 2022 da Parliamentarians for Global Action.

Ritengo quindi che gli Stati amici dell’Ucraina dovrebbero a ogni buon conto spingere tale Stato alla ratifica dello Statuto nella speranza di tali cancellazioni, per il cui obiettivo gli Stati di buona volontà dovrebbero attivarsi al più presto.

Essi dovrebbero magari attivarsi anche per la cancellazione del cumulo per tutti gli eventuali nuovi crimini di cui alla seconda frase dell’Art. 131 (5) (cosa certamente più difficile da ottenere…). A prescindere dall’interpretazione di tale disposizione nel senso della sua inapplicabilità al crimine di aggressione, la sua cancellazione sarebbe infatti necessaria al fine di permettere la giurisdizione della Cpi secondo il regime generale di giurisdizione anche sugli eventuali nuovi crimini, in una logica di coerente uniformità dell’operare delle condizioni di esercizio della giurisdizione da parte della Corte.

Certo, i tempi di tali procedure non sarebbero brevi, ma tutto dipende dalla buona volontà degli Stati. E finora, purtroppo, essi non ne hanno mostrata molta. Abbiamo visto soprattutto iniziative molto positive, come quella della Germania, cui si sono aggiunti alcuni membri di parlamenti nazionali, volte a raccogliere e preservare le prove del crimine di aggressione. Sulle proposte di nuovi emendamenti allo Statuto di Roma quasi tutti mi sembrano invece troppo riservati. Ma anche sulle proposte di creazione di un tribunale speciale abbiamo letto e ascoltato soprattutto tante parole.

Finora, dopo un anno dall’invasione dell’Ucraina, nessuno Stato si muove infatti concretamente, mentre, per esempio, la modifica dell’Art. 15bis avrebbe già potuto essere messa all’ordine del giorno della sessione dell’Asp dell’autunno del 2022.

Tale immobilità rende pressoché vano il lavoro di Kampala per la definizione del crimine di aggressione, perché attualmente la Cpi avrebbe competenza su tale crimine solo nei rapporti tra i 44 Stati che hanno accettato i relativi emendamenti, ma che, se si guarda la loro lista, sono proprio quelli che appaiono ben lontani, per fortuna, dall’avventurarsi in una vicenda del genere.

Capisco che l’immobilità può anche capirsi per il fatto che la permanenza al potere di Putin e del suo cerchio magico rende per ora impossibile la cattura dei membri di questa leadership (salvo alcuni capi militari operativi sul campo, in Ucraina).

Non va però trascurato che, per evitare la cattura, i membri della leadership di Mosca molto difficilmente possono lasciare il loro Paese. Essi sono fondamentalmente costretti a restare in una prigione, seppure a cielo aperto. E ciò in ogni caso fa del mandato internazionale di cattura una sanzione di un certo rilievo, soprattutto per certe personalità abituate a scorrazzare per il mondo sui loro lussuosi panfili.

*******************************

[1] Uso questo termine per indicare le quattro categorie di crimini contemplate nell’Art. 5 dello Statuto della CPI (c.d. Statuto di Roma) e ivi qualificate come “i più gravi crimini di portata internazionale”, e cioè : (a) Crimine di genocidio, (b) Crimini contro l’umanità, (c) Crimini di guerra, (d) Crimine di aggressione. Ciascuna categoria è poi definita e scomposta in diverse fattispecie criminose negli articoli 6, 7, 8, 8bis.

[2] Ma, stranamente, tale ostacolo non ha impedito all’Ucraina di accettare ad hoc la competenza della Corte con le due Dichiarazioni del 2014 e del 2015, nonostante il principio di complementarità operi anche in questo caso.

[3] Tale articolo così infatti recita: “1. Il presente Statuto si applica a tutti in modo uguale senza qualsivoglia distinzione basata sulla qualifica ufficiale. In modo particolare la qualifica ufficiale di capo di Stato o di governo, di membro di un governo o di un parlamento, di rappresentante eletto o di agente di uno Stato non esonera in alcun caso una persona dalla sua responsabilità penale per quanto concerne il presente Statuto e non costituisce in quanto tale motivo di riduzione della pena. 2. Le immunità o regole di procedura speciale eventualmente inerenti alla qualifica ufficiale di una persona in forza del diritto interno o del diritto internazionale non vietano alla Corte di esercitare la sua competenza nei confronti di questa persona”.

[4] Qui si è data anzitutto (par. 1, art. 8bis) una definizione generale della categoria “crimine di aggressione”. Tale definizione identifica il comportamento criminale di un individuo rispetto all’atto di aggressione statale, che per la sua gravità ed estensione costituisca una violazione manifesta della Carta delle Nazioni Unite, violazione che solo gli Stati possono commettere. L’individuo deve dunque essersi trovato, come recita questa definizione, in una posizione di esercizio effettivo del controllo o della direzione politica o militare dell’azione dello Stato. Infatti, nel par. successivo, si rinvia alla Ris. 3314(XXIX) dell’Agnu relativa all’aggressione come atto di Stato e se ne riprende l’elencazione dei singoli atti, che dunque corrispondono, per lo Statuto di Roma, a singoli crimini individuali di aggressione.

Quale tribunale per il crimine di aggressione in e contro l’Ucraina

×

Iscriviti alla newsletter