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La corsa verso l’auto elettrica? Rischiamo di andare a sbattere, dice Cantamessa (PoliTo)

Filiera auto elettrica Stellantis

Con l’addio delle auto a benzina e diesel a partire dal 2035, il Parlamento Ue ha reso l’elettrico ineluttabile e soffocato le tecnologie alternative. Senza consapevolezza di quale sarà la strada migliore e senza fare i conti con la complessità della conversione industriale. Per il professor Cantamessa (Politecnico di Torino) occorre fermarsi e ripensare l’approccio: ecco come

Martedì il Parlamento europeo ha approvato i limiti per auto e veicoli commerciali leggeri immatricolati a partire dal 2035. Secondo il nuovo corso, la riduzione delle emissioni dovrà essere del 100%, cosa che si traduce in uno stop di fatto al motore endotermico (a diesel o benzina) per tutti i nuovi veicoli venduti in Ue e un impulso verso l’auto elettrica. Una corsa a tappe forzate, che per il ministro dell’Impresa Adolfo Urso “non coincid[e] con la realtà europea e soprattutto italiana”, dove la filiera dell’automotive – ancora molto legata al motore endotermico – è a rischio. Così Formiche.net ha raggiunto Marco Cantamessa, professore al Dipartimento di Ingegneria gestionale e produzione del Politecnico di Torino ed esperto in gestione dell’innovazione e sviluppo del prodotto, per una fotografia della situazione.

Professore, fa molto discutere la decisione del Parlamento europeo di portare a zero le emissioni delle nuove auto nel 2035 – nei fatti, una transizione forzata verso l’elettrico.

Il punto non è tanto il passaggio dal motore endotermico a quello elettrico, perché avverrà sicuramente. Tuttavia, dietro a un’auto elettrica ci possono essere tante scelte tecnologiche diverse, come per l’accumulo di energia: ci sono batterie a stato solido, ma potrebbero anche esserci le batterie a flusso. E ancora, diverse modalità di ricarica: dai wall box domestici ai superfast charger, ma si potrebbe usare anche la ricarica induttiva o il cambio del pacco batterie. Per non parlare delle auto a idrogeno.

Sta dicendo che la decisione dell’Europarlamento ha tracciato un sentiero troppo stretto?

Sto dicendo che nel momento in cui non si lascia alla tecnologia la possibilità di sperimentare tra queste alternative (anche andando a sbattere), ma si stabilisce una data indiscutibile, tutti gli attori coinvolti non possono fare altro che scegliere la soluzione che appare più matura in quel dato momento. In quella scelta vanno miliardi per costruire la filiera produttiva e l’infrastruttura complementare, togliendo ossigeno alle altre alternative. E se un domani, quando avremo riempito il Paese di colonnine, scopriamo che sarebbe stato meglio, mettiamo, la batteria a flusso con ricarica dell’elettrolita, sarà già troppo tardi.

Dunque ritiene la decisione Ue prematura?

Sì. Se si fosse fatta una scelta simile a fine Ottocento, oggi andremmo con l’auto a vapore, perché a quell’epoca andava per la maggiore e appariva più attraente di quella a combustione interna. E ci sono altri temi oltre al lock-in tecnologico.

Può approfondire?

Anzitutto stiamo andando verso un’economia che non dipenderà dagli idrocarburi ma dalle materie prime. Aprire nuove miniere e centri di raffinazione è un lavoro lungo, sporco e pericoloso. C’è il tema della dipendenza dalla Cina, che è un player dominante: basti guardare l’ultimo rapporto Iea. Poi ci sono le reti, perché oltre a produrre più elettricità pulita dovremo anche portarla a destinazione e gestire i momenti di massimo carico – come la sera, quando tutti insieme vorremo ricaricare l’auto. Mi sembra che tutti questi passaggi siano dati per scontati, e che come al solito si virerà sulla soluzione delle sovvenzioni pubbliche. Ma quando avremo fatto il phasing out dei motori a combustibile fossile, tutte le accise dovranno essere prese da qualche altra parte. Infine le auto elettriche costano di più, sono meno accessibili per la classe media. E i modelli di affitto e car sharing sono complicati da attuare, specie in Paesi dove gli orari della giornata o i cicli delle ferie sono più o meno gli stessi per tutti.

Nel piano europeo a tappe forzate è prevista una “revisione” nel 2026 sul progresso e la fattibilità di questa transizione.

La trovo l’apoteosi dell’assurdità. Questo tipo di politiche funzionano solamente se si prende la decisione e si tiene la barra dritta. Se si inizia a dire “poi ci ripenso” è finita: agli imprenditori servono certezze. Proprio l’aver ipotizzato questa revisione dimostra che la scelta è stata presa con un fondo di incertezza, dunque è prematura. Credo sia il sintomo di un problema più profondo: l’Ue ama riconoscersi come potenza regolatoria, che imprime de iure gli standard per le svolte tecnologiche. Vero, ci siamo riusciti con la rete Gsm e per un periodo è fiorito un settore, ma quello è l’unico caso di reale successo: non si può continuare a propinare lo stesso pasto solo perché è venuto bene una volta.

E le pressioni esterne? In Norvegia, per esempio, l’80% dei nuovi veicoli immatricolati sono elettrici. E considerando mercati più grandi (e sovvenzionati) come Cina e Usa, sembra evidente che si vada senza tentennamenti verso l’elettrico. Non rischiamo di rimanere indietro nella corsa?

La Norvegia è un caso limite, anche curioso: questa diffusione di veicoli elettrici è stata possibile grazie a incentivi finanziari importantissimi, finanziati col gas e col petrolio che la Norvegia vende a noi. È il culmine dell’ipocrisia. Per quanto riguarda gli altri, rimango con lo scetticismo dell’esempio dell’auto a vapore: non sappiamo quale sia la direzione migliore, può darsi sia questa, ma se acceleriamo troppo poi rischiamo di finire in un vicolo cieco. I giapponesi di Toyota e i coreani di Hyundai, per esempio, hanno sempre avvertito gli altri dell’irrazionalità di puntare solo sull’auto a batteria come la intendiamo noi.

Ossia?

Prendiamo una Tesla. Sono almeno 15.000 euro e 800 kg di batterie, che forniscono un’autonomia potenziale di 500 chilometri (forse) ma, il più delle volte, la usa solo una persona per fare 40 km in città. È evidente quanto sia incredibilmente inefficiente quell’utilizzo di litio e cobalto (materiali necessari per le batterie, ndr). E come la mettiamo con i veicoli commerciali leggeri, come i furgoni, che devono portarsi dietro chili e chili di equipaggiamento e batterie per andare lontano? O i camper, che invece si usano molto poco durante l’anno? Potrebbe avere più senso in ottica di sostenibilità utilizzare un mix di piccole macchine a batteria per la città e autovetture a idrogeno (o anche diesel) per i tratti a lunga percorrenza. Il punto è che serve un minimo di tempo perché la razionalità delle scelte si palesi ai produttori e ai consumatori.

Le tempistiche attuali colpiscono gli oltre 270.000 italiani che lavorano nell’automotive. Si parla di 70.000, o anche 195.000 (stime Confapi) posti di lavoro a rischio. Plausibile?

Le cifre sono verosimili e testimoniano la nostra arretratezza nell’affrontare questo cambiamento, figlia di una posizione miope della nostra industria nazionale. Il problema della transizione esiste e andrà in qualche modo gestito. Alcuni produttori di componenti potranno passare tranquillamente alla filiera dell’elettrico (penso a chi produce freni), altri potranno riconvertirsi verso altre tipologie di produzioni, mentre altri ancora (come chi produce marmitte) andranno probabilmente accompagnati all’uscita. Ma il tema rimane: chi fa radiatori, per esempio, utilizza know how e tecnologie compatibili con l’eventuale sviluppo di una filiera dell’idrogeno. Però serve dargli tempo, perché se soffochiamo quell’idea nella culla non c’è più niente da fare e il produttore è finito. Per questo dico che accompagnare la riconversione dell’industria richiede un minimo di respiro. Che non vuol dire non far nulla, attenzione: solo evitare di imporre tempi non compatibili con dinamiche manageriali, finanziarie, tecnologiche.

Può indicarci una finestra temporale realistica?

Probabilmente parliamo di altri 10-15 anni, che non sono certo un’eternità.

Non crede che si tratterebbe di un rallentamento dello sforzo verso la decarbonizzazione?

Qui si pone un problema di democrazia, sia tecnologica che politica. Se qualcuno dice che il mondo sta bruciando e sostiene – un po’ come fu per l’emergenza Covid – l’accettare dei limiti draconiani che incidono pesantemente sulla nostra libertà di scelta, opera una scelta di fondo molto importante. La realtà è che dobbiamo certamente agire per contrastare il cambiamento climatico, ma dobbiamo farlo in modo da poter far funzionare la società in condizioni accettabili, pensando anche all’efficacia delle soluzioni. Anche annullassimo la mobilità individuale in Europa, di quanto ridurremmo le emissioni di CO2 a livello globale? Ora, la nostra società è fondata sulla mobilità. Ed è la stessa società che nei decenni ci ha consentito di aumentare incredibilmente la nostra qualità di vita. Grazie a istituzioni che non ragionavano così, ma stimolavano il progresso in una cornice di libertà e non di misure d’emergenza.

E cosa direbbe a un ambientalista radicale, che probabilmente opterebbe per una logica emergenziale?

Se l’ambientalista è sinceramente preoccupato per il clima, dia istantaneamente il via alla costruzione di centrali nucleari. Il tempo tecnico (non burocratico) per farle è di circa dieci anni. Non sei d’accordo? Allora non credi davvero all’urgenza.


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