Nel continente africano il guadagno russo con l’impiego di Wagner non è indifferente: un accesso privilegiato al mercato delle materie prime e la sedimentazione di alleanze con Paesi del mondo in via di sviluppo, due fattori da contrapporre all’isolamento del blocco euro-atlantico seguito al conflitto ucraino. L’analisi di Marco Di Liddo, responsabile analisti Cesi, apparsa nell’ultimo numero della rivista Formiche
La nuova strategia russa di penetrazione e influenza in Africa viene fatta risalire al summit di Sochi del 2015, quando un sorridente Putin si era fatto ritrarre con decine di leader africani in apparenza entusiasti di riprendere quella relazione con Mosca bruscamente interrotta nel 1991 a causa dello scioglimento dell’Urss. Della strategia russa, il cosiddetto “pacchetto Wagner” costituisce il pilastro portante.
In sintesi, attraverso l’oscura compagnia militare privata compartecipata dal Gru (il servizio di Intelligence militare) e dall’oligarca Yevgheny Prigozhin, il Cremlino offre servizi militari (addestramento delle truppe locali, operazioni cinetiche contro ribelli, terroristi e bande criminali, protezione dei siti sensibili e delle personalità di potere), politici (operazioni di disinformazione, propaganda, ingerenza elettorale) ed economici (sfruttamento delle risorse minerarie, accesso ai canali dell’economia illegale, accordi privilegiati per la fornitura di armamenti).
L’accordo con Mosca è chiaro: una guardia pretoriana che protegge gli autocrati africani e cerca di neutralizzare i loro nemici, un’azienda in grado di gestire l’estrazione e la commercializzazione (legale e illegale) di oro, diamanti e altre risorse critiche, un “consulente” politico in grado di supportare leadership barcollanti nella gestione di spinosi dossier interni.
Wagner è questo. Chi accetta l’accordo non deve offrire garanzie sul rispetto dei diritti umani o delle più basiche norme del diritto internazionale e addirittura riceve quella legittimità e quel riconoscimento internazionali che in pochi potrebbero offrire.
Il Wagner è uno strumento ibrido e flessibile in grado di muoversi ambiguamente nell’enorme zona grigia compresa tra legalità e illegalità, politica e criminalità, interessi degli Stati e interessi dei singoli. Uno strumento che rispecchia, in tutto e per tutto, la strategia di guerra ibrida del Cremlino.
Il guadagno russo non è indifferente: un accesso privilegiato al mercato delle materie prime e la sedimentazione di alleanze con Paesi del mondo in via di sviluppo, due fattori da contrapporre all’isolamento del blocco euro-atlantico seguito al conflitto ucraino.
Oggi la presenza del Wagner group è stata registrata ufficialmente in Mali, Libia, Sudan, Madagascar, Mozambico e Repubblica Centrafricana. E potrebbe espandersi al Burkina Faso, soprattutto dopo il ritiro delle truppe francesi.
In questo, la Russia approfitta dell’arretramento democratico in alcune regioni dell’Africa, del crescente antioccidentalismo nel continente e delle difficoltà dei Paesi occidentali nel raggiungere i risultati in materia di sviluppo economico e sicurezza.
L’Europa, nonostante le tante missioni militari e la consistenza della cooperazione umanitaria, non è riuscita a tradurre gli sforzi profusi in obiettivi raggiunti, peggiorando addirittura la sua immagine presso le società africane a causa della gestione altalenante del dossier migratorio.
Seppur sempre più esteso, il modello russo di partnership appare più limitato e circoscritto di quello cinese in termini di volumi di investimenti e interscambio commerciale, presenza politica, varietà e capillarità degli strumenti. L’unica cosa che i russi offrono in più rispetto ai cinesi è la partnership militare.
Un aspetto sul quale Pechino, per il momento, appare ancora reticente poiché contrario a quel principio di discrezione e di preminenza della cooperazione politico-economica su quella securitaria.
Tale principio, però, potrebbe cambiare nel prossimo futuro, come enunciato nel forum Africa-Cina di novembre 2021 in cui, per la prima volta, i delegati della Repubblica Popolare hanno apertamente parlato della necessità di investire in una maggiore presenza militare nel continente.