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Antonio Martino il liberale, libertario, liberista. Il ricordo di Guido Stazi

Di Guido Stazi

Pubblichiamo l’intervento del segretario generale dell’Antitrust, che fu allievo del professor Antonio Martino alla Fondazione Einaudi, pronunciato durante la commemorazione  alla Camera dei Deputati in occasione del primo anniversario della sua scomparsa

Incontrai Antonio Martino nel 1979 alla Facoltà di Scienze Politiche della Sapienza. Proprio in quell’anno aveva iniziato il suo corso di Storia e Politica monetaria a Roma. Io stavo lavorando a una tesi in Politica Economica e il mio Professore, Franco Romani, suo amico e collega, mi aveva mandato da lui a parlare di Milton Friedman. Martino aveva studiato, tra il 1966 e il 1968, a Chicago con Friedman, icona del liberismo e teorico del legame assoluto tra capitalismo, libertà economica e libertà politica. E di come l’intervento pubblico, nell’economia e nella società, erodeva i diritti della persona e la libertà.

Friedman fu insignito del Nobel per l’Economia nel 1976 per i suoi studi sulla teoria del consumo e sulla teoria quantitativa della moneta ed ebbe un’enorme influenza sulla politica e l’economia americana, a partire dai due mandati della presidenza di Ronald Reagan. Molte delle politiche friedmaniane di liberalizzazione dell’economia tramite la centralità del mercato, la concorrenza, la riduzione dell’intervento dello Stato e il rilancio dei consumi e della crescita con l’abbattimento delle imposte su persone e imprese, furono poi applicate anche nell’Inghilterra di Margaret Thatcher e, in misura minore, nell’Europa continentale. Avviando anche un importante dibattito nell’Unione Europea che condusse alla creazione del mercato unico e delle connesse liberalizzazioni.

Naturalmente anche il giovane Martino, a partire dal quel soggiorno di metà anni ’60 e dalla successiva continua interlocuzione, personale e accademica, abbracciò in toto il liberismo radicale e libertario di Milton Friedman.

Quindi, fin dall’inizio degli anni ’70 gli scritti accademici di Martino in tema di economia internazionale, teoria monetaria e macroeconomia rilanciavano e adattavano all’Italia l’approccio teorico friedmaniano; in un contesto però non solo accademico, ma anche politico e istituzionale, molto poco incline a prendere in considerazione idee, teorie e pratiche che negavano la validità e l’efficacia della politica economica e monetaria di stampo keynesiano praticata allora nel nostro Paese, che univa accademia, istituto di emissione e governi.

Negli anni ’80 Martino allargò la sua riflessione a temi di carattere più generale, ma ancora più indigesti, per la loro impronta di radicalismo liberale, liberista e libertario, rispetto al clima culturale e politico di quegli anni, che pure mostrava anche in Italia e in Europa qualche segno del vento liberista che spirava da ovest.

A Roma, presso la Fondazione Einaudi di Piazza San Lorenzo in Lucina, un manipolo di economisti liberali (Romani, Da Empoli, Marzano,Ricossa) raccolti nel Comitato Scientifico presieduto da Martino, provava in quegli anni a far conoscere e valorizzare le idee neoliberiste e libertarie di oltreoceano, con l’aiuto operativo di qualche – allora giovane – liberale (tra cui Giuseppe Vegas, Salvatore Carrubba e il sottoscritto), traducendo, pubblicando e organizzando convegni con molti intellettuali americani tra cui, oltre a Friedman, ricordo tra i molti altri James Buchanan, Robert Nozick e Richard Posner.

Con una importante sponda nel quotidiano L’Opinione, allora organo del Partito Liberale, diretto da Rossana Livolsi, che aveva in redazione un gruppo di giovanissimi giornalisti, tra cui Nicola Porro. La Livolsi, oltre al quotidiano, decise di editare un settimanale in cui venivano pubblicati, col contributo di noi della Fondazione Einaudi, scritti e interviste dei protagonisti internazionali di quella che allora appariva una nuova rivoluzione liberale.

In Fondazione Einaudi nacque anche, ad opera di Enrico Morbelli, una scuola di liberalismo, di cui Martino fu tra i primi docenti, che da quarant’anni diffonde il verbo liberale tra giovani studenti.

La posizione e gli scritti di Martino erano comunque sempre un passo avanti rispetto anche ai colleghi liberali. Per fortuna molti di questi illuminanti, spesso spiazzanti, saggi e interventi che Martino scrisse e pronunciò in quegli anni, sono stati poi ripubblicati in raccolte, ne ricordo tre: Economia e libertà; Semplicemente liberale e Liberismo quotidiano.

Nella premessa del primo di questi volumi, Martino riafferma in modo icastico e definitivo il suo essere liberale, liberista e libertario; cito:

“Sono Liberale, perché credo che, in assenza di una Costituzione funzionante che vincoli il potere politico, il futuro della libertà sia in pericolo.

Sono Libertario perché credo che la mia vita mi appartiene e rifiuto che siano altri ad impormi come viverla. La legge deve proteggerci dalle violenze degli altri, non costringerci a fare ciò che l’illuminata e illimitata saggezza dei nostri governanti ritiene conforme al nostro vero interesse.

Sono Liberista per ragioni di libertà molto più importanti dei quelle dell’efficienza, perché la libertà economica è il contenuto della libertà senza aggettivi, e perché ogni estensione delle decisioni politiche a scapito di quelle di mercato riduce la nostra libertà”.

Intorno a queste tre declinazioni della libertà – politica, individuale ed economica – si articola, in modo netto e senza compromessi, il pensiero di Antonio Martino. E nei suoi saggi amava ribadire queste sue convinzioni con citazioni colte, a testimonianza di raffinate e ampie letture.

In tema di vincoli al potere politico nella Costituzione, la prima delle sue tre declinazioni della libertà, citava Thomas Jefferson, terzo Presidente e fondatore della Nazione Americana: “In questioni di potere – diceva Jefferson all’inizio dell’800 – smettiamo di parlare di fiducia negli uomini, ma mettiamoli in condizione di non nuocere con le catene della Costituzione. Mi piacerebbe che fosse possibile far approvare un unico emendamento alla Costituzione; mi riferisco a un articolo che tolga al Governo il potere di indebitarsi”.

Con riferimento alla seconda declinazione della libertà, quella individuale, citava Immanuel Kant, il grande filosofo che nel ‘700 affermava: “Un governo fondato sul principio della benevolenza verso il popolo, come un governo di un buon padre verso i figli, cioè un governo paternalistico in cui i sudditi sono come figli minorenni che non possono distinguere ciò che è loro utile o dannoso, è il peggiore dispotismo che si possa immaginare”.

Infine, per riaffermare che libertà economica e liberismo sono consustanziali alla libertà tout court, citava Friedman, che nel suo libro più importante “Capitalismo e libertà”, affermava che “il capitalismo concorrenziale, cioè l’organizzazione del complesso dell’attività economica per mezzo dell’intrapresa privata operante nell’ambito di un libero mercato, garantisce la libertà economica, conditio sine qua non della libertà politica”.

L’impianto intellettuale che ci ha consegnato Antonio Martino, basato sulle tre declinazioni della libertà, è, ad un tempo, di disarmante semplicità e di straordinaria complessità.

Semplice, perché di immediata applicabilità nelle azioni politiche come in quelle individuali. Complesso perché la forte impronta liberale, liberista e libertaria della Weltanshauung, cioè della concezione del mondo, della vita e della politica di Martino generava spesso consensi e contrasti traversali.

Ad esempio il suo antiproibizionismo, le sue posizioni sull’immigrazione, piacevano più ai radicali che ai conservatori, così come a sinistra aborrivano le sue teorie sull’abolizione di ogni forma di assistenzialismo e sul completo ritiro dell’intervento dello stato nell’economia.

Nel 1988 perfino il Patito Liberale, nel congresso in cui Martino presentò la sua candidatura alla segreteria, considerò il suo programma e le sue idee troppo rivoluzionarie e gli preferì il placido Renato Altissimo.

Tra l’altro, proprio in quel 1988, Martino fu eletto presidente della Mont Pelerin Society, fondata nel 1947 da Hayek, che riuniva i più grandi pensatori liberali del pianeta. Come dire…nemo propheta in patria.

Nel 1994 la sua seconda esperienza politica, in Forza Italia, sembrava partire con i migliori auspici: tessera n. 2, programma economico iperliberale elaborato da Martino insieme a Paolo Del Debbio (col contributo di qualche buona ricerca presente negli archivi della Fondazione Einaudi di Roma).

Ma, all’esito della vittoria elettorale della coalizione guidata da Silvio Berlusconi, fu assegnato a Martino il – prestigiosissimo – dicastero degli Affari Esteri, ma non il Tesoro, come allora si chiamava l’attuale Ministero dell’Economia.

Io gli chiesi: “Professore, perché non ha avuto il Tesoro?”, lui mi rispose che il suo sogno fin da ragazzo era quello di diventare Ministro degli Esteri, come il padre Gaetano, firmatario del Trattati di Roma del 1957.

Al Tesoro fu designato Lamberto Dini, direttore generale della Banca d’Italia.

Non so perché andò così, Martino al Tesoro era forse una scelta troppo liberale, liberista e libertaria?

Sono passati 30 anni da quei giorni, chissà se il dott. Letta ci può dire qualcosa in proposito, considerando che ormai la questione è materia di storici e non attualità politica!

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