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Crisi della politica e dell’amministrazione. Come uscirne secondo Cassese

Di Federica Masi

Nel suo ultimo libro il professore già giudice costituzionale sottolinea come la crisi dell’amministrazione pubblica abbia riflessi su tutti gli ambiti, e non sia scollegata a un’altra crisi evidente da almeno 30 anni: quella delle politica. Come uscirne? Semplificare

La macchina pubblica appare frammentata e nasconde ancora delle grosse debolezze, sulle quali il governo Meloni sta cercando di mettere mano, annunciando inoltre che il 2023 sarà l’anno delle riforme e degli avanzamenti amministrativi. Nonostante ciò, rimangono non pochi nodi da sciogliere su autonomia differenziata, reddito di cittadinanza e altri principali interventi programmati per i prossimi mesi. Il dibattito necessario sul riequilibrio tra politica e amministrazione è appena cominciato. Sabino Cassese, già giudice della Corte costituzionale, docente alla Normale di Pisa, ordinario di diritto amministrativo alla Sapienza, e anche ministro della funzione pubblica con Ciampi nel 1993, aiuta a orientarsi, con il suo nuovo libro “Amministrare la nazione”, nella cultura amministrativa, grazie a un’acuta analisi dei fenomeni in atto, dei processi produttivi e organizzativi, e alla sua lunga esperienza nelle istituzioni.

Professore, nel suo ultimo libro “Amministrare la nazione” fa riferimento all’ “insofferenza nei confronti della pubblica amministrazione”. Intende che il sistema amministrativo del nostro Paese è in crisi?

La pubblica amministrazione italiana è da tempo in crisi. I fattori determinanti della crisi sono molti. In primo luogo, i metodi di selezione del personale, perché troppi dipendenti pubblici entrano come precari e sono poi stabilizzati, oppure entrano grazie alle troppe idoneità che vengono riconosciute in occasione delle procedure concorsuali, oppure sono nominati dal corpo politico. In secondo luogo, un fattore importante di crisi è costituito dalla esondazione del Parlamento, che, specialmente nel corso della conversione dei decreti legge, aggiunge al testo approvato dal governo numerose norme che sono in larga misura atti amministrativi che assumono veste legislativa. Un terzo fattore di crisi è costituito dai controlli esterni, dei giudici penali, e interni, della Corte dei conti e dell’Anac. Piuttosto che aiutare a far funzionare meglio la pubblica amministrazione, questi controlli hanno una funzione di blocco, suscitano quella che viene chiamata amministrazione difensiva, lo sciopero della firma, la fuga dalle responsabilità. Un quarto fattore di crisi è costituito dall’irrazionale disegno organizzativo e procedimentale della pubblica amministrazione, perché troppe norme si sono andate accumulando, che costruiscono i processi di decisione come dei labirinti, per uscire dai quali è sempre necessario molto tempo.

Stiamo riscontrando una disaffezione alla politica da parte dei cittadini, ne abbiamo avuto la conferma con le elezioni regionali, che hanno registrato un’affluenza bassissima. Cosa sta succedendo alla politica e, in particolare, ai partiti?

La politica, negli ultimi trent’anni, ha subito molti cambiamenti. In primo luogo, i partiti da associazioni si sono trasformati in comitati elettorali. Avevano prima milioni di iscritti, ne hanno ora poche decine di migliaia. Si può stimare che era iscritto ai partiti una volta l’8% degli italiani, ora non si va oltre al 2%. Inoltre, lasciando alle primarie aperte la scelta di un segretario, come accaduto di recente, ci si può chiedere a che cosa servano gli scritti i partiti. Il secondo fattore di trasformazione della politica è costituito dall’insufficiente offerta politica. I partiti offrono schieramenti o appartenenze, non programmi e prospettazioni di un futuro. I documenti che presentano come programmi non nascono da un dibattito interno, ma da studi commissionati dai segretari dei partiti. In sostanza, la politica è diventata un affare di oligarchie. Si aggiunga un ulteriore fattore, quello costituito dai media e in particolare dalla crisi dei giornali e dei settimanali che prestano attenzione alla politica. Sempre meno persone li comprano e sempre meno persone li leggono. Quindi, i due grandi strumenti di dialogo tra società e Stato, i partiti e i giornali, attraverso i quali una volta si formava l’opinione pubblica, vanno riducendo il loro campo d’azione. La conseguenza di tutto ciò è l’estrema volatilità sia dell’elettorato sia dell’opinione pubblica.

Tra le riforme più importanti e incisive dell’agenda di governo c’è il reddito di cittadinanza. Quale potrebbe essere, a suo avviso, il compromesso giusto per non creare scontenti?

Un intervento della collettività, e cioè dello Stato, per assicurare la libertà dal bisogno è indispensabile. Faceva già parte del piano Beveridge del 1942. Deve quindi essere limitato solo a quelli che hanno bisogno, evitare di disincentivare l’attività lavorativa, o, peggio ancora, incentivare il lavoro nero. Nell’ambito di queste coordinate, molte opzioni sono possibili. Certamente i beneficiari di un intervento di questo tipo non debbono essere troppi, anche per non creare una schiera di assistiti la cui presenza finirebbe per negare quel fondamentale articolo 4 della nostra Costituzione che, dopo aver riconosciuto a tutti cittadini il diritto al lavoro, prevede che “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

L’attuale rompicapo del governo e della politica tutta, che suscita non poche polemiche, è l’autonomia. Il timore che possano crearsi degli squilibri è concreto?

Il pericolo c’è, ma può essere evitato. Nel 1948, si riconobbe la necessità di ampliare le autonomie, affiancando a quelle di comuni e province le autonomie regionali. Riconoscere autonomia vuol dire accettare differenziazioni. Ulteriori differenziazioni vennero prodotte dal riconoscimento delle cosiddette regioni a statuto speciale, un quarto delle 20 regioni complessive. Ora occorre consentire una differenziazione che non comporti, tuttavia, una diversità di prestazioni sociali da regione a regione, quindi assicurando che l’istruzione, la sanità e tutti gli altri grandi servi servizi siano fruibili dei cittadini allo stesso modo in ogni parte del territorio nazionale. Con l’autonomia differenziata, potremmo avere due benefici: da un lato, una concorrenza tra le regioni, che potrebbe essere benefica per i cittadini; dall’altro, per quanto possa apparire contraddittorio, una maggiore collaborazione orizzontale tra le regioni, uno degli elementi portanti del regionalismo che è mancato finora in Italia.

Si parla spesso, talvolta abusandone l’utilizzo, di “semplificazione” della burocrazia, additata come la causa di tutti i mali. Cosa serve davvero alla nostra macchina amministrativa per essere più efficiente e veloce?

Semplificazione, innanzitutto della legislazione, poi anche dell’amministrazione, e una “scatola degli attrezzi” molto ricca. Vuol dire ridurre le fasi dei procedimenti, ordinarli non in sequenza ma in parallelo, definire i livelli essenziali dell’erogazione delle prestazioni, assicurare il rispetto dei tempi dell’azione amministrativa, evitare che le carte girino da un ufficio all’altro se tutti i titolari degli uffici che debbono pronunciarsi possono invece riunirsi e prendere decisioni insieme, sostituire le carte con la digitalizzazione, rendere accessibile l’amministrazione ai cittadini, consentire quindi un dialogo tra società e Stato.

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