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Phisikk du role – Una convenzione per riformare la Costituzione

La struttura dello Stato-organizzazione reclama una manutenzione intelligente, fedele ai principi ma attenta anche a cogliere i percorsi evolutivi del nuovo tempo. La rubrica di Pino Pisicchio

La Presidente Meloni è l’erede dell’esperienza politica che non partecipò al “patto costituzionale” sottoscritto col popolo italiano dalle forze politiche antifasciste attraverso i rappresentanti eletti nell’Assemblea Costituente. È un dato storico inconfutabile che oggi, di fronte ad un governo a trazione destra/destra, e alla sua legittima volontà di esprimere un indirizzo politico-costituzionale poggiato su un assetto presidenzialistico, apre una finestra nuova che potrebbe promuovere la partecipazione anche del “polo escluso” nel processo costituente.

Attenti, però agli strumenti che si vorranno adoperare. Si è parlato di commissioni bicamerali che in realtà evocano tre prodigiosi insuccessi che, a partire dagli anni ’80, recarono i nomi di Bozzi, Iotti-De Mita e D’Alema, più una Convenzione per le Riforme, avviata dal Governo Letta con la benedizione del Capo dello Stato Napolitano. Tutte le esperienze svilupparono un’importante accumulazione documentale, interessante per gli studiosi ma non in grado di produrre qualcosa sul piano delle riforme. E si capisce anche il perché: il lavoro delle bicamerali, secondo l’art.138 Cost., ritorna alle Camere, dove le maggioranze sono quelle che sostengono il governo. Domanda: si può giungere alla norma condivisa da tutti se a regolare il traffico è la stessa maggioranza politica votata dai cittadini per sostenere il governo? Certo che no. A maggior ragione non è consigliabile fare riforme d’impianto alla maniera di Berlusconi o Renzi, entrambi provvisti di larghe maggioranze a sostegno del governo.

Berlusconi varò una riforma organica provvista anche di suggestioni presidenzialistiche, che venne bocciata dal referendum nel 2006; ci riprovò Renzi, con una vasta riforma che, tra l’altro, toglieva l’ingombro delle Province, del Cnel e del bicameralismo paritario, e subì la stessa bocciatura popolare nel 2016, rimettendoci palazzo Chigi e, sostanzialmente, anche il Pd. L’esperienza, dunque, chiarì l’inadeguatezza, almeno dal punto di vista politico, dello strumento predisposto dall’articolo 138 per una revisione costituzionale che non fosse di mera e limitata correzione dell’impianto attuale: gli stessi Costituenti immaginarono, infatti, l’inserimento della procedura dell’articolo 138 non quale mezzo per ridisegnare l’intero ordinamento dello Stato. Tuttavia, omisero di rimarcare il fatto con una distinzione esplicita tra la revisione parziale e quella totale, come invece avviene in alcune costituzioni come quella spagnola (art.166 e segg.), austriaca (art.44 e segg.) e svizzera (art.192 e segg.), che fanno riferimento a procedure diverse nel caso di interventi suscettibili di scalfire in modo profondo i principi fondativi della Costituzione.

Credo che la realtà dei fatti si sia incaricata di dimostrare che la struttura dello Stato-organizzazione reclami una manutenzione intelligente, fedele ai principi ma attenta anche a cogliere i percorsi evolutivi del nuovo tempo. Discutendo senza pregiudizi, ma con “visione” l’impianto di riforma e non col metodo “a spizzichi e molliche” usato, ad esempio, per ridurre il Parlamento al formato bonsai.

Potrebbe avere, allora, senso l’esperienza di una Commissione eletta parallelamente alle assemblee legislative con il compito di definire un nuovo assetto generale del “patto” tra governanti e governati. Una commissione che abbia un anno, un anno e mezzo di lavoro davanti a sé, eletta con un sistema proporzionale, selezionata con voto di preferenza, regolata da un regime d’incompatibilità assoluta con altri mandati elettivi, e avente come oggetto del lavoro di revisione la seconda parte della Costituzione. Un’esperienza inedita, certo, nella storia costituzionale italiana, ma non ignota all’esperienza del costituzionalismo contemporaneo: si pensi, per esempio, al Cile, che recentemente ha condotto a termine la procedura di revisione con il voto referendario.

Alla fine del lavoro della “Commissione” dovrebbe accedere al referendum approvativo finalizzato ad accrescere il grado della qualità democratica della riforma contenuta nella “decisione costituente”. Si tratterebbe, in definitiva, di una proposta di riforma elaborata al di fuori della conflittualità ordinaria che si lega all’esercizio del governo nella fisiologica dialettica parlamentare tra maggioranza-opposizione. Che porterebbe anche la cultura politica della destra meloniana ad essere contraente del patto costituzionale con gli italiani.


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