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Come ridurre l’ipocrisia nel triangolo fra italiani, politica e tassazione

Non sappiamo come sarà, nei dettagli, la riforma fiscale che il governo si accinge a definire. Auguriamoci, almeno, che non potendosi ridurre il peso fiscale per esigenze di bilancio, si riduca almeno il tasso di ipocrisia che avvolge il triangolo fra gli italiani, lo Stato (cioè la politica) e la tassazione. Il commento di Giuseppe De Tomaso

Sosteneva George Bernard Shaw (1856-1950) che esistono cinque categorie di bugie: la bugia semplice, le previsioni del tempo, le statistiche, la bugia diplomatica e il comunicato ufficiale. Il grande drammaturgo irlandese, evidentemente, non conosceva gli italiani e le loro dichiarazioni dei redditi. Altrimenti avrebbe di sicuro aggiornato la sua classifica, mettendo al primo posto il binomio infedeltà-ipocrisia (verso il fisco), di casa nel Belpaese da tempo immemorabile.

Che gli italiani siano un popolo affollato da adulteri (non soltanto a letto) è notorio. Lo comprovano metà della letteratura seria e metà dell’informazione pettegola. Ma il primato di infedeltà che si raggiunge nel rapporto tra lo Stivale e le tasse è difficilmente eguagliabile. Colpa non solo della coazione a tradire stabilmente praticata da molti contribuenti, ma anche o soprattutto di una normativa tributaria più complicata e insidiosa di una foresta tropicale, foresta in cui convivono, a mo’ di trappole, aliquote esose e imposizioni odiose, roba che pure un branco di leoni si metterebbe paura. Probabilmente, se le pretese del fisco fossero più moderate, la percentuale di slealtà nei confronti dello stato tassatore calerebbe non poco, anche se non possono essere esibite prove e controprove al riguardo.

In ogni caso: se la slealtà fiscale è assai diffusa, l’ipocrisia fiscale non solo è generalizzata, ma dà il meglio di sé proprio sul fronte della declamatoria lotta all’evasione e all’ancora più perfida elusione. Tutti riconoscono che le cifre dell’evasione sono scandalose, inammissibili in un Paese moderno. Ma non appena arriva l’ora di passare dal proclama alla soluzione, dalla denuncia civile al provvedimento riparatorio, i più furbi fingono di sbarcare da Marte, i meno furbi fingono di non conoscere la realtà in cui vivono. E cercano di mischiare le carte.

Il punto di partenza della discussione solitamente è condivisibile: le tasse sono eccessive, così non può andare, l’economia ne risente, gli imprenditori non investono molto, i consumatori spendono poco, bisogna che tutti paghino il dovuto ed è educativo che i furbetti siano puniti. Ma già con la seconda tappa della discussione le differenziazioni nei ragionamenti escono allo scoperto senza particolari cautele. E così la lotta all’evasione di massa cessa di essere vincolante come un testo sacro per fare spazio al mantra più rituale, demagogico e comodo che ci sia: “Paghino i ricchi perché il fisco deve essere funzionale alla redistribuzione della ricchezza”.

Ora. Diamo pure per buona la tesi che le tasse servano per democratizzare la ricchezza e non per pagare i servizi garantiti dallo Stato. Diamo senz’altro per buona la tesi che un miliardario non debba pagare quanto un impiegato di media carriera. Ma che c’entra tutto questo con una classificazione tra ricchezza e povertà basata esclusivamente sulle fasce delle aliquote Irpef? Uno, perché – abbiamo visto – molte di quelle denunce dei redditi sono più false di un orologio taroccato: parecchi autonomi dichiarano meno dei loro dipendenti, molti dipendenti si rifanno con il secondo lavoro, ovviamente ignoto al fisco. Due, perché solo uno spirito intriso di ideologismo egualitaristico può catalogare tra i ricchi un contribuente che guadagna 70mila euro lordi (40mila netti), cifra che in alcune città costose basta a malapena per andare avanti.

Allora. Da un lato si inveisce contro l’infedeltà fiscale nel nome del rispetto degli obblighi di legge e di giustizia. Dall’altro lato si scoraggiano sia il merito individuale (ogni scatto di carriera rischia di essere penalizzato da un’aliquota superiore) sia, a colpi di slogan e norme contro i “ricchi”, l’iniziativa privata, l’emersione dal sommerso e la legalizzazione di ogni forma di entrata. In soldoni: si scoraggia prima l’onestà e poi il lavoro. Perché di questo si tratta.

In un Paese come l’Italia che vanta il record di vetture di grossa cilindrata, al cui confronto il parco auto circolante in una città come Francoforte fa la figura del parente sfigato, riesce difficile, e grottesco, immaginare che solo il 2% della popolazione guadagni 100mila euro lordi (60 netti) e che più della metà della gente sia di fatto esonerata dagli obblighi fiscali, pur disponendo, i molti evasori nascosti nella zona franca degli esentasse, di tutti i benefìci dello stato sociale pagati dai cosiddetti ricchi.

Cosiddetti ricchi, perché in realtà sono soltanto onesti, non importa se per convinzione o per imposizione. Sì, perché i contribuenti che rientrano nella classe dell’aliquota più alta sono prevalentemente i contribuenti più integri, quelli che evitano di imboscarsi, o perché non vogliono o perché non possono. In ogni caso, evitano di frodare lo stato, visto che tra migliaia di norme e dispositivi vari, un paragrafo utile a beffare l’erario si trova sempre.

E che fa lo Stato? Che fa la politica? Quasi tutti si accaniscono contro i presunti ricchi, per la gioia dei veri ricchi che, invece, dispongono di mille scappatoie per nascondere averi ed entrate davanti ai fanali della macchina fiscale. Quasi tutti riempiono di balzelli i presunti ricchi, ma veri onesti, in nome dell’uguaglianza e della redistribuzione. Quasi tutti tolgono detrazioni e benefit ai presunti ricchi, ma veri onesti, in nome della traslazione a vantaggio dei più sfortunati, tra cui si annidano molti fortunati evasori.

L’ipocrisia, nella battaglia contro evasori ed elusori, regna sovrana e indisturbata, favorita soprattutto dal fatto che gli evasori votano e sanno distinguere chi li combatte davvero da chi li combatte per finta. Non sappiamo come sarà, nei dettagli, la riforma fiscale che il governo si accinge a definire. Auguriamoci, almeno, che non potendosi ridurre il peso fiscale per esigenze di bilancio, si riduca almeno il tasso di ipocrisia che avvolge il triangolo fra gli italiani, lo stato (cioè la politica) e la tassazione.

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