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Ecco gli approcci più promettenti dell’Intelligenza artificiale nelle aziende

Di Gaetano Pellicano

Il principale errore da evitare è considerare l’innovazione digitale la mera progettazione e adozione di un nuovo software o di un nuovo sistema informativo che il top management decide e l’azienda nel suo insieme realizza. Questo è solo uno dei percorsi che un modello di gestione del cambiamento deve prevedere. L’analisi di Gaetano Pellicano, political advisor, esperto di Intelligenza artificiale e change management

Prima il giochino delle poesie e delle canzoni scritte da ChatGPT, poi l’annuncio di un nuovo pacchetto integrato Office con Copilot, ovvero l’intelligenza artificiale (AI) a portata di mouse. La promessa è migliorare la produttività e la puntualità, affrancandoci dalle funzioni noiose e ripetitive. Come? Sa scrivere briefing memo a partire dalle informazioni salvate sul cloud o accessibili in rete, predisporre presentazioni fancy e molto smart, segmentare la clientela e proporre strategie di marketing differenziate. Sa persino individuare i fattori – finanziari o meteorologici, ad esempio – che impattano sulle forniture e proporre soluzioni per ridurne le conseguenze negative.

Quattro lavoratori su cinque si aspettano che l’AI possa sollevarli dalle funzioni ripetitive. E l’AI, come molte altre tecnologie introdotte nei sistemi produttivi, ci seduce con le promesse della razionalità strumentale: puoi fare di più, meglio e in meno tempo. Chi in coscienza è pronto a rifiutare? È chiaro, finiremo tutti per spalancare le porte e per arrenderci a questo nuovo di lavorare e di esplorare. Nel frattempo resistiamo. Cosa ce ne verrà in cambio? Goldman Sachs stima che negli Stati Uniti e in Europa un quarto delle funzioni lavorative possa essere automatizzato e un settimo dei posti di lavoro eliminati. Avremo tutti più tempo libero ma dovremo ripensare il nostro stare al mondo.

La digitalizzazione delle nostre vite ha semplificato e razionalizzato la gestione delle informazioni e li rende disponibili nel momento in cui servono. La rivoluzione dell’AI si presenta come un nuovo tool tra i tanti, business as usual. Provate ad adottarla e vi presenterà il conto. Vi chiederà di cedere i vostri dati, ma questo è nulla di nuovo. Rilancerà, suggerendovi le decisioni da prendere e i fini da perseguire. Lo vediamo nelle notifiche innocenti che propongono un po’ di attività fisica oggi che siamo stati pigri o di abbassare il volume della radio per preservare l’udito. Finalità indiscutibilmente buone, nel nome delle quali l’AI ci sollecita ad agire attraverso il pungolo gentile che gli esperti chiamano nudging.

Da mezzo a nostro servizio per cui l’accogliamo nelle nostre vite, pian piano si manifesta come criterio ordinatore di priorità e comportamenti. È un gigante che si nutre dei nostri dati, trasformando comportamenti e preferenze degli umani. Ha bisogno di individui e organizzazioni per aumentare il suo potere con il quale controlla e indirizza le loro azioni. Mentre ci aiuta codifica la nostra vita in dati che raccoglie e analizza per incrementare il potere decisionale su di noi.

La trasformazione digitale ha prodotto e continua a produrre un cambiamento profondo anche nel modo di operare delle aziende. Nei casi più virtuosi, la risposta è stata una strategia per un uso efficace dei nuovi strumenti con cui migliorare le performance. Secondo Gregory Vial, questo processo produce un cambiamento nei percorsi di creazione del valore, nei network, nei canali digitali, migliorando l’adattabilità e l’agilità dei processi produttivi. Esistono, però, vincoli che limitano il cambiamento. Riguardano la struttura organizzativa, la cultura aziendale consolidata nel tempo, la capacità di leadership dei manager, i ruoli e le funzioni dello staff. Non secondaria sono l’inerzia delle organizzazioni in cui “si fa come si è sempre fatto” e la resistenza al cambiamento da parte di chi nel cambiamento vede svantaggi per la sua posizione personale. E’ un fatto che l’appartenenza ad un’organizzazione rappresenti un presupposto per ridurre i rischi professionali e personali e per pianificare la propria vita, contando su un certo livello di stabilità. Il sacro fuoco della digitalizzazione mette in crisi tutto questo, producendo una riluttanza ad abbracciare il cambiamento che può essere superata solo a certe condizioni.

Le piattaforme digitali che si sono adottate a partire dagli anni ’60 facilitano la gestione della conoscenza grazie ad un’efficiente raccolta ed elaborazione dei dati. Molte di queste sonoi sistemi di supporto ai processi decisionali, i cosiddetti Decision Support System (DSS). Alcuni con finalità esclusivamente informative, ad esempio i sistemi statistici che identificano correlazioni ricorrenti tra due variabili, ad esempio le condizioni meteorologiche e il prezzo dell’energia. Ovvero, di tipo propositivo in quanto identificano opzioni alternative e vantaggi e svantaggi connessi. Ad esempio quei sistemi che consentono di valutare semi diversi da utilizzare su un terreno. I DSS prescrittivi, come ad esempio i sistemi di gestione delle scorte, consentono di arrivare rapidamente a una decisione ma pongono nuove sfide nella giustificazione delle scelte e nella definizione delle responsabilità dei manager.

Negli anni 80 i DSS di nuova concezione iniziano a includere caratteristiche “intelligenti”, cioè integrando capacità di raccolta e analisi dati con la possibilità di identificare autonomamente correlazioni tra variabili, prevedere scenari futuri e valutare l’impatto di scelte alternative. Un insieme di funzioni che sino a quel momento potevano essere realizzate solo dall’intelligenza umana. Allenando il sistema con grandi set di dati e testandoli con altri dati, gli IDSS suggeriscono la scelta giusta. L’industria 5.0 utilizza modelli produttivi basati sull’interazione tra uomini e sistemi intelligenti, ad esempio la Smart Manifacturing.

Un sistema di macchinari e piattaforme digitali che monitorano il processo produttivo, automatizzano le operazioni e utilizzano l’analisi dei dati per migliorare le prestazioni. Sensori in ogni ingranaggio delle macchine raccolgono dati su prestazioni e sull’usura dei mezzi di produzione. La manutenzione diviene preventiva, individuando in anticipo ciò che va sostituito per evitare il blocco della produzione. La logistica diventa automatica e implementa una migliore gestione delle forniture e delle scorte e una gestione efficiente del magazzino. Il sistema è, così, in grado di pianificare gli acquisti di materie prime e assegnare agli impianti disponibili la loro trasformazione per dare seguito agli ordini ricevuti. Una fabbrica che gli uomini realizzano e che sa produrre in autonomia. Uno scenario per alcuni da incubo, ma per molti ineluttabile.

Keep human in the loop, manteniamo un circolo virtuoso in cui gli uomini contano. Le aziende che iniziano a introdurre questo tipo di innovazione lo fanno di frequente con un approccio minimalista. Il chief digital officer crea un gruppo di lavoro di esperti digitali, si analizzano alcune fasi dei processi produttivi, si scelgono quelle da cui partire con l’innovazione, si raccolgono i dati, si testa la piattaforma, la si propone agli operatori. La diffidenza unita alla preoccupazione per l’effetto spiazzamento sulla propria professionalità sono i primi riscontri più frequenti. L’innovazione calata dall’alto incuriosisce quando è percepita come un gioco che non spaventa, diventa un rischio quando impatta la sfera professionale. L’utopia che si presenta come distopia.

Gli approcci più promettenti di gestione del cambiamento che l’arrivo dell’AI necessita si basano sulla metodologia del Design Thinking. Un metodo che parte da una riflessione collettiva sulle criticità delle organizzazioni aziendali e sulle opportunità che possono rappresentare le nuove tecnologie intelligenti. Prima ancora di identificare e realizzare le piattaforme digitali più adatte, la leadership è chiamata ad ascoltare le esigenze, le preoccupazioni, le intenzioni del proprio staff. Vale a dire, ad essere empatica. A questa fase segue la raccolta e la comparazione tra idee progettuali alternative per identificare la migliore in un processo iterativo di confronto che culmina con una scelta di cui il management sarà responsabile. Da qui partono le fasi di implementazione dei prototipi e di test del sistema, della valutazione dei risultati in vista dell’adozione.

I rischi di fallimento della trasformazione digitale delle organizzazioni sono molto elevati. Il machine learning, la forma più diffusa di AI, agisce come un intruso che manda in tilt ruoli, funzioni e responsabilità di ciascuno all’interno dell’organizzazione. E rende nel tempo desueti molti ruoli e molte funzioni. Anche quando questo non avviene, le piattaforme intelligenti assumono decisioni la cui responsabilità è in capo a manager e operatori. Cosa fare? Mantenere fermi sulla carta responsabilità e ruoli dei manager, pur assegnando ai sistemi funzioni cruciali? Ovvero disarticolare l’organizzazione per far posto all’AI?

Il tema è già al centro dell’attenzione da parte degli esperti di change management che hanno iniziato ad individuare alcune soluzioni. Il principale errore da evitare è considerare l’innovazione digitale la mera progettazione e adozione di un nuovo software o di un nuovo sistema informativo che il top management decide e l’azienda nel suo insieme realizza. Questo è solo uno dei percorsi che un modello di gestione del cambiamento deve prevedere. L’introduzione di sistemi decisionali intelligenti richiede in parallelo una trasformazione organizzativa il cui impatto va previsto e valutato già nella fase di ideazione della componente digitale. Il prototipo scelto va poi sperimentato, messo a punto e integrato attraverso iniziative formative.

La validazione finale, inoltre, non può prescindere da prove sul campo delle nuove procedure operative i cui esiti sono la condizione necessaria per il rilascio della versione finale del sistema. Il cambiamento si ottiene attraverso l’accettazione e l’adozione del modello soprattutto da parte del middle-management e degli operatori. Per superare lo shock del salto culturale e professionale e la naturale tendenza a resistere al cambiamento, la leadership aziendale deve farsi garante della tenuta del processo, delle nuove funzioni attribuite al proprio staff oltre che a quelle assegnate ai sistemi intelligenti e delle nuove responsabilità e meccanismi premiali che diano a ciascuno buoni motivi per scommettere nel cambiamento. L’effetto spiazzamento va così bilanciato con prospettive di crescita e con il coinvolgimento dei diretti interessati attraverso la cosiddetta metodologia Agile che evita, ove possibile, l’approccio top-down del piano definito dal top management a favore di un modello basato sulla creazione partecipata di valore a tutti i livelli.

Con questo approccio possono svilupparsi organizzazioni resilienti al cambiamento, in cui il miglioramento è continuo e non contingente rispetto all’introduzione di un nuovo strumento. Machine learning e trasformazione organizzativa si sostengono vicendevolmente, instaurano meccanismi ciclici e iterativi, trasferiscono abilità di pensiero critico e capacità adattative che aiutano le persone a risultare fattori di cambiamento e non sue vittime. Un modello che favorisce l’esplorazione, la sperimentazione, lo sviluppo di organizzazioni e capitale umano. Dalla collaborazione tra data scientist e middle-management nascono e si perfezione modelli che si adattano all’organizzazione mentre questa ripensa se stessa. In questo modo si affronta il rischio di rigetto di modelli funzionanti in astratto ma che non si riesce a integrare nelle organizzazioni. Uno staff ben formato al pensiero critico e alla resilienza, una comunicazione costante che favorisce la fiducia, un monitoraggio che evidenzia le criticità. Su queste basi si innesta un processo di innovazione continua articolato in cicli in cui ciascuno viene a patti con la realtà e cavalca la tigre dell’AI.

*Le dichiarazioni e le opinioni contenute in questo articolo sono espresse a titolo personale

 

 

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