L’Università Goethe di Francoforte non ha rinnovato l’accordo di cooperazione con l’organizzazione finanziata dal governo di Pechino. Nella città pugliese, invece, si lavora per aprire un nuovo centro. “Molti Paesi occidentali hanno da tempo avviato valutazioni, anche il governo italiano agisca in fretta per affrontare il problema delle interferenze e delle ingerenze”, dice Harth (Safeguard Defenders)
L’Università Goethe di Francoforte ha annunciato lunedì la decisione di non rinnovare l’accordo di cooperazione, scaduta a fine febbraio, con l’organizzazione, finanziata dal governo cinese, che sostiene l’Istituto Confucio. Una commissione di esperti indipendenti chiamata a valutare l’intesa “ha sottolineato come non vi sia alcuna influenza percepibile da parte delle autorità cinesi né sulla ricerca né sull’insegnamento” all’università, si legge in una nota diffusa dall’ateneo. Forse una prudenza tedesca per evitare reazioni dure di Pechino. Intanto, però, la cooperazione è saltata e continuerà concentrandosi “su occasioni o aree specifiche”. Già negli anni scorsi alcuni di questi centri in Europa erano stati chiusi tramite il mancato rinnovo degli accordi.
Gli Istituti Confucio erano, a fine 2019 (ultimo dato disponibile) oltre 550 con 1.172 Classi Confucio in 162 Paesi e regioni del mondo. Negli ultimi anni sono finiti nel mirino dei governi occidentali, a partire da quelli degli Stati Uniti e dei loro alleati nell’alleanza di intelligence Five Eyes (Australia, Canada, Nuova Zelanda e Regno Unito). Si tratta di centri che fanno spionaggio, propaganda e reclutamento, è l’accusa di Washington – respinta da Pechino. Ad agosto 2020, il dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha definito il Confucius Institute U.S. Center una “missione straniera” della Repubblica popolare cinese. A marzo 2021, il Senato ha approvato una legge per limitare i finanziamenti federali ai college americani che ospitano questi centri. Ciò si è concretizzato nel National Defense Authorization Act del 2021. Recentemente, il governo canadese ha annunciato una nuova politica di controlli sui finanziamenti concessi alla ricerca in aree “sensibili” nel caso in cui qualcuno dei ricercatori sia collegato a Stati stranieri che rappresentano un rischio per la sicurezza nazionale.
E in Italia? Sono una dozzina e potrebbero aumentare. Nei giorni scorsi, infatti, è stato firmato un protocollo d’intesa tra la Gazzetta del Mezzogiorno e il Guangzhou Daily, la principale testata di Canton (Guangzhou), promosso nell’ambito del gemellaggio istituzionale siglato nel 1986 tra Bari e Canton. A rappresentare l’amministrazione comunale di Bari c’era Vito Leccese, capo di gabinetto del sindaco Antonio Decaro, che ha auspicato “una cornice più ampia di collaborazione istituzionale, nella quale, con il Politecnico di Bari e la South China University of Technology, stiamo ora lavorando sulla possibilità di realizzare un Istituto Confucio a Bari”.
Negli anni passati il dibatto è stato molto acceso in Italia. A fine 2019, dopo le tensioni tra il regime di Pechino e gli attivisti pro democrazia a Hong Kong, il sinologo Maurizio Scarpari, che ha insegnato per 35 anni lingua cinese classica all’Università Ca’ Foscari di Venezia, lanciò un appello alla chiusura di questi centri nelle università italiane dalle pagine de La Lettura del Corriere della Sera. Gli rispose – “con grande disagio”, come volle precisare – Stefania Stafutti, professore ordinario di Lingua e letteratura cinese e condirettore di parte italiana dell’Istituto Confucio all’Università di Torino, già direttrice dell’Istituto italiano di cultura a Pechino: “L’Istituto Confucio opera come disseminatore di conoscenza”, scrisse.
Nell’ottobre 2021, Nicola Casarini, ricercatore associato presso l’Istituto Affari Internazionali a Roma e non-resident Global Fellow presso il Wilson Center, Washington, analizzò i legami accademici tra Italia e Cina sulla Via della Seta. A due anni e mezzo dalla firma del memorandum d’intesa sottoscritto dal governo gialloverde presieduto da Giuseppe Conte, l’esperto osservò: “La Cina ha investito somme ingenti per promuovere la cooperazione e gli scambi con l’accademia italiana, anche attraverso la creazione di una dozzina di Istituti Confucio e di alcune Aule Confucio. Le università italiane hanno avviato partenariati accademici con entità cinesi su quasi tutte le materie. Ciò ha migliorato le prospettive di ricerca dell’Italia, ma ha anche comportato rischi inevitabili di autocensurarsi e di inchinarsi ai desideri cinesi. C’è stata inoltre un’ondata di sponsorizzazioni accademiche da parte di aziende cinesi, in particolare da parte di società Ict come Zte e Huawei, che suscitano ulteriori preoccupazioni per gli interessi dell’Italia relativi alla sicurezza e alla cooperazione con i suoi alleati occidentali”.
“Molti Paesi occidentali hanno da tempo avviato valutazioni sugli Istituti Confucio e su altri strumenti con cui il Partito comunista cinese promuove i suoi interessi e influenza le decisioni dei governi, come il Fronte Unito”, dice Laura Harth, campagn director dell’omg Safeguard Defenders, a Formiche.net. “Anche alla luce delle recenti rivelazioni su repressione transnazionale, operazioni di influenza e dulcis in fundo fenomeni di evasione e riciclaggio che coinvolgano la criminalità cinese in Italia, è fondamentale che anche il governo italiano agisca in fretta per affrontare il problema delle interferenze e delle ingerenze. I toni di scontro che ci arrivano dal Congresso del Popolo in questi giorni dovrebbero far capire all’Italia che questo è un momento decisivo. Non c’è tempo da perdere, a partire da una decisione pubblica quanto prima del governo sulla Via della Seta”, conclude.