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La forma del desiderio e il conflitto che è atto a generare

Di Anna Camaiti Hostert e Michele Gerace

La Forma del desiderio è il titolo dell’edizione in corso della Scuola sulla Complessità che dà il nome all’iniziativa organizzata assieme al Centro Studi Americani ed è il filo conduttore degli incontri. Ecco di cosa si è parlato durante il terzo incontro, dedicato al conflitto. Ne scrivono Anna Camaiti Hostert, esperta di Visual studies, e Michele Gerace, avvocato e fondatore della Scuola sulla Complessità

Dopo il primo articolo sulla natura e il secondo sulla meraviglia (ai quali rinviamo per una contestualizzazione e descrizione dell’iniziativa), con il terzo partiamo dal conflitto. Nelle righe che seguono vogliamo portare all’attenzione di chi legge il nesso che li lega, che apre al potere (parola chiave oggetto del quarto ed ultimo articolo della serie), e che dà forma a desideri tipici degli esseri tipicamente umani e tecnologici quali siamo.

Per ricapitolare e proseguire offrendo in lettura qualche altro spunto, riprendiamo dei versi tratti dalle prime due strofe di un brano scritto da Mogol e cantato da Lucio Battisti che meglio di tante spiegazioni rendono all’idea. La forma del nostro desiderio ha a che vedere con l’“Uscir dalla brughiera di mattina dove non si vede ad un passo”, al “Seguir con gli occhi un airone sopra il fiume e poi”, alla meraviglia e all’emozione che provoca lo “scoprire/Dove il sole va a dormire/Domandarsi perché quando cade la tristezza in fondo al cuore/ Come la neve non fa rumore”.

Prima ancora di averla razionalizzata, la meraviglia provoca un’emozione che smuove, svela o rivela un oggetto del desiderio che possiamo iniziare a rappresentarci. Se pensiamo alle grida delle rondini e ai voli geometrici del desiderio che ispirano Pablo Picasso, iniziamo a capire cosa intendono Mogol e Battisti quando ascoltiamo “Capire tu non puoi/Tu chiamale se vuoi emozioni”.

Nei precedenti articoli siamo arrivati a considerare come la meraviglia fa nascere qualcosa di nuovo, una emozione irrazionale che ci spinge ad andare alla ricerca di una spiegazione razionale, appassionata e ragionevolmente piena di dubbi. La meraviglia suscita una emozione che è pungolo per aprirsi, tra istinto e ragione, a un conflitto con altre emozioni. Date la possibilità dell’esistenza di diversi desideri e la volontà di darci direzione, è principio del desiderio e prospettiva del metterci in movimento. Introduce un conflitto, una dialettica che può risolversi e portare novità. È fondamentalmente generativo.

Per chiarezza di chi legge, dichiariamo subito che in questo articolo, tenendo presenti considerazioni neuroscientifiche di carattere cognitivo, seguiamo una prospettiva estetica e filosofica, etica e politica, che si arricchisce con i Visual Studies applicati all’industria dell’intrattenimento, in particolare, a film e serie televisive che aiutano a comprendere come ci sia la necessità di decodificare la pletora delle immagini da cui siamo inondati e di metterle nella giusta relazione con la parola scritta. Permettono di intravedere cosa si muove nel brodo primordiale delle istanze non ancora emerse pienamente nella società. Appaiono più adatti a questo scopo di quanto non riesca a fare buona parte dell’informazione solitamente obbligata a rincorrere l’attualità del momento.

La meraviglia, più precisamente l’emozione, è il baricentro che perdiamo, il momento prima che capiamo che stiamo per muovere un passo, quando intuiamo che stiamo per farlo perché sentiamo la spinta a ma ancora non sappiamo in quale direzione, se fare un passo avanti, indietro o di lato. La forza che Thomas Hobbes considera fondamentale e principio invisibile di movimento e che si traduce in quella afasia che viene prima di un’azione proprio a causa della meraviglia che ci lascia sbigottiti. In bilico tra l’invisibile e il visibile, in un passaggio di stato conseguente ad conflitto di emozioni all’origine della póiēsis, la creazione poetica che dai tempi di Omero è, letteralmente, all’origine del fare.

La meraviglia e l’emozione ci mettono davanti una possibilità che può arrivare anche a stravolgere la nostra vita e che, intanto, apre alla possibilità di darci una direzione. Esprime il nostro potenziale quando siamo messi alla prova, quando la nostra anima – osserva San Tommaso – riceve o subisce un’azione. Ma per darci una direzione, l’emozione deve elaborare un sentimento, avviare un ragionamento, preludere a un conflitto che muove dal valore che attribuiamo a bisogni, interessi e desideri, per riflettere sulla nostra condizione e disporci ad affrontare una situazione al meglio, al partire da qualità, capacità, in generale, mezzi che abbiamo a disposizione, compresa la tecnologia.

Profondamente condizionati dalla tecnologia, le nostre menti, come anche i nostri corpi – rispetto ai quali permangono sostanziali differenze con robot o, più precisamente, con i cyborg (cyber organism) – sono la sede di emozioni e conflitti fino ad ora inimmaginabili e inconsueti. Pensiamo per un momento a quel testo fondamentale sul tema di Donna Haraway, Manifesto Cyborg: la nostra natura di esseri umani, dalla scoperta del fuoco e dall’invenzione della ruota, continua ad incorporare tecnologia e a modificarsi. Ma la tecnologia connaturata al nostro essere umani rischia di snaturarci quando non lascia che ci emozioniamo o non permette di riflettere sulla nostra condizione, di sviluppare un sentimento, comporre e risolvere un conflitto e vivere secondo ragione. Di sentire gioia e dolore, di essere pungolati per volere, avvertire una mancanza, desiderare, metterci in movimento. Ci rende apatici e senza emozioni, con la sola ragione – avverte Sant’Agostino – ci induriamo e ci istupidiamo. La tecnologia che ci fa sentire di più, arricchisce il desiderio naturale, l’abito che per Aristotele secondo natura ci permette di sentire di più dove i sensi possono essere potenziati, e serve il nostro continuo essere squilibrati e in equilibrio, restare e divenire, progredire, quali e in quanto esseri umani. Bruno Latour ha scandagliato a questo proposito il problema della ridefinizione della natura che si interfaccia con la tecnologica. Al riguardo, l’industria dell’intrattenimento offre un punto di riferimento con A.I. Intelligenza Artificiale di Steven Spielberg del 2001 e con la serie televisiva Love, Death & Robot che si pongono il problema dei confini tra l’umano e  il macchinico.

Le emozioni ci attivano e ci responsabilizzano, afferma Sant’Agostino, formano e dirigono la nostra volontà. Agitano lo spirito che secondo René Descartes deve poter essere mediato, rispetto alla ragione, dal sentimento. Per dirla con Herbert Spencer e Charles Darwin le sensazioni e le emozioni sono tendenze, risposte al mondo esterno, forme di adattamento. Forme e movimenti espressivi. Le emozioni, come la forza fisica, l’esperienza e la ragione, sono facoltà tipicamente umane. Come scrive Immanuel Kant, ci predispongono alla giusta postura, giusto il tempo per la ragione di farne esperienza e porla alla base di nuove conoscenze. L’emozione che diventa sentimento dice molto di noi, racconta lo spirito, l’anima, quello che ci accade e che facciamo – ammette Friedrich Hegel – ci mette in relazione agli altri e al mondo, e ci spinge verso un orizzonte.

La gioia, la tristezza, l’amore e l’odio attengono alla nostra parte più appetitiva dell’anima e richiamano la più irascibile delle facoltà descritte da Platone, cioè l’audacia, il timore, la speranza e la disperazione, delle quali facciamo esperienza quando fronteggiamo difficoltà o conflitti per procurarci il bene ed evitare il male, per trovare una armonia che Ovidio narra in modo paradossale come una discorde concordia che è feconda.

Nel mondo dell’intrattenimento questi conflitti sono fondamentali. No conflict, no drama disse il grande drammaturgo irlandese George Bernard Shaw. E la verità sta proprio nel fatto che sia esso fisico, verbale o psicologico, interiore o esteriore, il conflitto è incorporato in ogni dramma, in ogni narrazione, tanto che molti canali televisivi lo hanno fatto proprio come slogan.

L’audacia, il timore, la speranza, la disperazione, ci mettono in movimento, sono condizioni per la realizzazione di gioia, tristezza, amore, odio. Il piacere e il dolore rappresentano la polarità del conflitto nel quale facciamo esperienza emotiva di forze che Bernardino Telesio definisce prepotenti e contrarie, in situazioni facili e difficili, in luoghi conosciuti ed estranei. Di qui nasce il desiderio di conoscere, di abitare l’altrove e il difficile indicati da Italo Calvino, di mettersi scomodi, di aprirci ad un conflitto che naturalmente e paradossalmente è narrazione, composizione e armonia.

Hannah Arendt che lasciò la Germania nel 1933 e la Francia nel 1941 per emigrare negli Stati Uniti parlò sempre da un altrove perché non si sentì mai legata a doppio filo a una comunità di cui sposare gli intenti e le caratteristiche. Il suo essere ebrea al-di-fuori-di-tutti-i-legami-sociali come lei stessa affermava, le faceva esperire una completa mancanza di pregiudizi nei suo stare al mondo e nella sua capacità di mettere al mondo il mondo. Ma dei conflitti riconosceva l’importanza fondamentale nel vivere, quella relazione politica che porta gli uomini a vivere e a interagire in uno spazio condiviso. Il trovarci esposti al mondo, il ricercare l’amore, l’andare e il venirci incontro per appagare bisogni, realizzare desideri, rispetto ai quali non bastiamo a noi stessi. Istinto e ragione per cui tendiamo a voler stare assieme agli altri e, qualche volta, a non sentire la paura e a renderci più coraggiosi. Siamo predisposti ai rapporti sociali, al darci una legge umana di convivenza nella quale trovare familiarità, benevolenza, aiuto reciproco, e completarci a vicenda.

Per questa ragione non solo non dobbiamo evitare il conflitto, ma dobbiamo ammetterlo, comporlo, considerarlo alla base della nostra convivenza, per continuare con Mogol e Battisti, lo “stringere le mani per fermare qualcosa che è dentro me” e che al momento “nella mente tua non c’è”. Lo abbiamo scritto nel precedente articolo: il conflitto che diventa confronto, convergenza, allineamento dei desideri, armonia che si compone, che trae i suoi nutrienti da un terreno culturale comune, da un potersi figurare un pronome, il “noi”, che è plurale, è il migliore anticorpo contro la paura dell’altro, dei vampiri, degli zombi, o più verosimilmente del mostro solo perché diverso da noi, e ci permette di proiettare questa pluralità verso un orizzonte.

La generazione del “noi”, quella della seconda guerra mondiale, ha fatto – come ha sostenuto Mario Perniola – la storia con la “S” maiuscola, o – come ha affermato Clint Eastwood – quella degli “us” in questo è molto distante dalle generazioni successive, ossessionate del “me”. Su questo aspetto generazionale Eastwood ha girato due toccanti film sulla guerra, il conflitto dei conflitti, il conflitto che ruba l’innocenza di un paese e di un’intera generazione: Flags of Our fathers e Letters from Jiwo Jima nei quali mostra la sua portata brutale e devastante. Da notare come, tra l’altro, nei due film di Eastwood le giovani generazioni che si ritrovano in guerra, non studiano per diventare eroi e non si battono per una melensa retorica della patria, ma lo divengono casualmente, attraverso un dolore quasi indicibile e inenarrabile, magari per salvare un commilitone. Semplicemente in nome di un’umanità condivisa.

La guerra confonde le idee, le emozioni, i sentimenti, e apre a conflitti interiori che possono essere non meno violenti di quelli che si vivono all’esterno in una trincea indicibile per chi non ne ha fatto esperienza diretta. Col rispetto che si deve a chi ha vissuto e a chi vive delle esperienze ai limiti del disumanizzante, il richiamo all’umanità, quello che ciascuno di noi può esperire nella quotidianità, è un richiamo alla vita quando incontra la voglia di vivere che Arthur Schopenauer deriva dal volere quello che non abbiamo e che implica frustrazione e dolore. “Il dolore in questo senso – scrive Kant – è il pungolo dell’attività ed è in questa che noi sentiamo sempre la nostra vita: senza dolore la nostra vita cesserebbe”. La stessa Arendt ha messo l’accento sul vivere e sul venire al mondo come processo fondamentale della politica in un messaggio tanto potente da riequilibrare il flirt con la morte che appassiona tanta filosofia. E ha fatto del conflitto un elemento fondamentale dell’azione politica senza che mai esso sposi una violenza onnipervasiva che se, da una parte, può distruggere il potere (quello rappresentativo e non il potere tout court), dall’altra non è capace di crearne uno.

Il nostro nascere e divenire essere umani che è da principio relazione e creazione, muove da emozioni cui seguire reazioni emotive e razionali. Dal rapporto con noi stessi e con gli altri che è complementare, complice e in conflitto, oscillando tra bisogni, necessità e desideri, fin da quando veniamo al mondo volgiamo al futuro e tra istinto e ragione, sopravviviamo e pensiamo e a un modo dignitoso di vivere. Stabiliamo una legge di convivenza e ci diamo una direzione. Dall’emozione che diviene sentimento e riflette sulla propria condizione rispetto ad una situazione nasce la passione della ricerca. Le emozioni arricchiscono la vita. Gioia e dolore sorreggono l’esistenza nel continuo gioco di antagonismo, conflitto nel quale disgregarsi, ricomporsi, a seguito del quale ritrovarsi allineati e crescere ancora. Del raccontarcela mentre lo facciamo.

Nel panorama televisivo americano c’è una serie tanto bella quanto sconosciuta ai più che è la traduzione in immagini di queste righe: The Wire, una serie cult creata da David Simon che si svolge negli Stati Uniti d’America a Baltimora, nello stato del Maryland. Nella serie, dice Simon, c’è la stessa America che sulle contraddizioni e sui conflitti vive senza che essi si risolvano una volta per tutte. Andata in onda dal 2002 al 2008, parla del rapporto tra poliziotti, spacciatori, istituzioni e mass media: le contraddizioni e i conflitti possono essere considerati l’altro grande personaggio della serie che, per la prima volta, assieme a I Soprano crea e ha come protagonista la figura dell’eroe negativo, altra personificazione del conflitto per eccellenza. Quello che una volta  era l’antagonista qui diviene il protagonista. Questo è un fenomeno che nasce negli Stati Uniti a partire dall’11 settembre, ferita storica che, sono in molti a pensare, sia stata perfino più profonda di quella della seconda guerra mondiale.

Gli eroi raccontati dai miti, dalla letteratura, da film e serie televisive su piattaforme digitali di larghissimo consumo, rappresentano in una dialettica tra protagonisti e antagonisti il desiderio di conservare o realizzare una condizione di benessere, di impegnarci ove le circostanze lo impongano per fare fronte a difficoltà, comporre e risolvere conflitti, fare salva la memoria, aprirci al futuro e in questo modo darci uno spazio di azione nel momento che ci è dato vivere. Il rapporto tra passato e futuro si potrebbe ritrarre con l’immagine dell’angelo della storia di Walter Benjamin che rivolto al passato marcia verso il futuro, come se solo guardando al passato si potesse procedere verso il futuro e come se non tenendo conto che ognuno di noi è dotato di intelletto e volontà ineffabili e trascendentali, non si potesse affrontare il mistero di ciò che abbiamo di fronte a noi. Di nuovo, l’emozione dell’”Uscir dalla brughiera di mattina dove non si vede ad un passo” che in fondo significa “ritrovar se stesso”.

(Foto: locandina Flag of our fathers)


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