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Lobby come democrazia. L’intervento del prof. Frosini

Bisogna partire da una constatazione: l’attività di lobbying non solo è lecita ma è anche utile per il decisore pubblico, strumento indispensabile per acquisire informazioni tecniche e prevenire impatti economicamente e socialmente insostenibili. In molti ordinamenti è regolamentata. Come farlo in Italia? Le proposte di Tommaso Edoardo Frosini, ordinario di Diritto pubblico comparato e di Diritto costituzionale, Università Suor Orsola Benincasa

È ormai da parecchi anni e diverse legislature che si discute di regolare le lobby. Ci sono state numerose proposte di legge, ma poi è mancata la volontà politica di approvare un testo. Eppure, le lobby esistono: di fatto ma non di diritto, almeno in Italia. Non è così, invece, nelle altre democrazie pluraliste, dove il fenomeno di gruppi organizzati di individui che si fanno portatori di interessi particolari presso il decisore pubblico, nel tentativo di orientarne le scelte, è una realtà imprescindibile regolata con legge. Il lobbismo rappresenta una componente legittima dei sistemi di democrazia liberale: come dimostra l’esempio statunitense, dove l’attività di lobbying è talmente connaturata al sistema politico-costituzionale, al punto da considerarla, come dicono gli americani, “as American as apple pie”.

Peraltro, come noto, negli Usa il lobbying gode di protezione costituzionale al Primo Emendamento, quale libertà di parola per convincere il decisore pubblico: come sostenuto dalla Corte Suprema, a partire da U.S. vs. Harris del 1954 fino, quantomeno, alla decisione Citizens United vs. Federal Election Commission del 21 gennaio 2010, che ha dichiarato incostituzionale la norma (art. 441b FECA 1971, modificato in BCRA 2002) che vieta(va) alle corporations e alle unions di finanziare, con propri fondi, le comunicazioni elettorali a favore di candidati alle primarie o alle elezioni generali.

Va altresì detto, che sempre più spesso il decisore pubblico ha avvertito la necessità di acquisire informazioni e conoscenze da parte di portatori di interessi particolari, e ciò soprattutto al fine di deliberare su questioni altamente tecniche o specialistiche: come avviene, per esempio, nelle indagini conoscitive presso le commissioni parlamentari. In tal senso, va pertanto evidenziata l’azione positiva esercitata dai gruppi di pressione nel processo decisionale, in quanto fornitori di elementi indispensabili per la comprensione dell’impatto di determinate scelte, sebbene molto spesso essi siano le cause di normative oscure o dalla difficile interpretazione.

In molti ordinamenti tale attività di pressione – ovvero di lobbying, per usare l’espressione inglese – svolta da gruppi organizzati verso i decisori pubblici è sottoposta a una precisa regolamentazione volta ad assicurare la trasparenza del processo decisionale o anche la partecipazione dei gruppi di pressione (che rispettano precise regole) al processo decisionale stesso. In tali ordinamenti (Stati Uniti, Canada, Israele, Francia, Gran Bretagna, Australia, Ungheria, Polonia, Estonia, Lituania) si è avvertita, con sfumature profondamente diverse tra loro, la medesima esigenza di rendere conoscibili a tutti chi sono e quali sono i gruppi di pressione, definendo un assetto di regole volte, quanto meno, ad assicurare la trasparenza delle decisioni.

Le analisi di diritto comparato evidenziano come nei sistemi in cui il Parlamento è “forte” – nel senso che gioca un ruolo chiave nei processi politici – esista una regolamentazione della rappresentanza parlamentare delle lobbies; all’opposto, al Parlamento debole corrispondono interessi oscuri. Di sicuro interesse è il caso dell’Unione europea dove vi è, fin dal 2011, un Accordo interistituzionale per l’istituzione di un “registro per la trasparenza” per censire e controllare le organizzazioni, le persone giuridiche e i lavoratori autonomi impegnati nell’elaborazione e attuazione delle politiche dell’Unione, nonché per incentivare un maggior numero di registrazioni e rendere così il sistema più vincolante. Sullo sfondo poi, c’è il Trattato di Lisbona, che all’articolo 11 prevede: «le istituzioni danno ai cittadini e alle associazioni rappresentative, attraverso gli opportuni canali, la possibilità di far conoscere e di scambiare pubblicamente le loro opinioni in tutti i settori di azione dell’Unione» e «mantengono un dialogo aperto, trasparente e regolare con le associazioni rappresentative e la società civile».

Prendiamo ora il caso italiano, dove mancano regole organiche in materia mentre esistono delle disposizioni, “disperse” fra norme di vario genere, che in qualche modo si riferiscono ai gruppi di pressione e alla loro lecita azione di orientamento della decisione pubblica. Si pensi, per esempio, alle norme del regolamento della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica in materia di istruttoria legislativa, ovvero alle disposizioni relative all’Analisi di impatto della regolamentazione (AIR), che impongono il coinvolgimento di soggetti privati nella redazione dell’atto normativo.

Tali disposizioni, tuttavia, non hanno avuto l’effetto di rendere palese il fenomeno lobbistico, né era il loro obiettivo quasi che in Italia si fatichi ad ammettere che le lobbies esistono; e questo anche perché si è mossi dalla preoccupazione che la disciplina dei gruppi di pressione possa equivalere alla loro legittimazione, dunque una curiosa ritrosia a riconoscere che il Re è nudo. Le lobbies sono divenute, di conseguenza, un vero e proprio tabù giuridico-costituzionale, un argomento noto alle cronache giornalistiche ma ritenuto non sufficientemente degno di essere sottoposto ad analisi giuridica[1].

Certo, nessuno ignora il fatto che le decisioni pubbliche assunte a tutti i livelli nel nostro sistema siano comunque il frutto di una negoziazione tra interessi differenti, la cui sintesi spetta all’Autorità chiamata a formalizzare la decisione. Ugualmente è noto che all’interno delle grandi aziende e imprese operano direzioni generali competenti proprio in materia di lobbying (o, con espressione più “pudica”, di relazioni istituzionali) e che in Italia numerose sono le società il cui scopo principale è proprio l’esercizio del lobbying per conto di terzi soggetti. Tale attività, infatti, non soltanto richiede, per essere esercitata correttamente, una specifica competenza basata su conoscenze tecniche e scientifiche, ma ha assunto una sua funzione economica-sociale.

Con la crisi dei partiti politici, tradizionali mediatori degli interessi della società civile presso le istituzioni pubbliche, tale fenomeno ha assunto una dimensione maggiore, ed è sembrato configurarsi quale “succedaneo” della rappresentanza politica, se non addirittura alternativa a essa. La rappresentanza politica è da ritenersi una sorta di macrocategoria nella quale confluiscono sia la rappresentanza parlamentare che la rappresentanza di interessi, secondo una declinazione costituzionale della sovranità popolare (art. 1, comma secondo, Cost.) e dell’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, comma secondo, Cost.).

Proprio la confluenza della rappresentanza parlamentare e quella di interessi all’interno della macrocategoria della rappresentanza politica deve suggerire una regolamentazione legislativa delle lobbies, che si accompagni in maniera convinta a una regolamentazione legislativa dei partiti politici, in attuazione dell’art. 49 Cost. È questo un passaggio indispensabile, sia per rifondare un nuovo patto fra politica e società civile, sia per rilanciare la funzione costituzionale e sociale dei partiti politici.

Credo, però, che occorra partire da questa constatazione, relativamente alla crisi dei partiti, e dal presupposto che l’attività di lobbying non solo è lecita ma è anche utile e preziosa per il decisore pubblico, perché strumento indispensabile per acquisire informazioni tecniche, altrimenti difficilmente comprensibili, e prevenire impatti economicamente e socialmente insostenibili delle decisioni che si vogliono adottare. Il lobbying opererebbe, dunque, quale infrastruttura sociale ed economica in grado di unire, fermo restando le proprie rispettive responsabilità, soggetti privati e decisori pubblici.

La crisi che permea le istituzioni partitiche, che erano i normali collettori di interessi collettivi, sollecita un intervento legislativo in tal senso. Non si può infatti negare che l’attività dei portatori di interessi sia sempre esistita ed esista in qualsiasi società evoluta. L’obiettivo che si deve raggiungere è quello di rendere trasparenti le attività, le finalità e gli scopi, i mezzi umani e finanziari impiegati, i gruppi che muovono tali interessi. Lo scopo, quindi, non è quello di istituire una nuova figura professionale o di imporre sui gruppi di interessi nuovi e maggiori oneri, ma quello di razionalizzare un’attività già presente ma non regolamentata, per fornire al decisore pubblico uno strumento e un supporto chiaro e con obiettivi e finalità ben definite e, al tempo stesso, garantire ai cittadini il diritto di conoscere le ragioni (non solo politiche) sottese alla decisione pubblica.

Peraltro, che oggi l’esigenza di “regolare gli sregolati”, per così dire, risulti senz’altro avvertita è dimostrato e confermato anche, e forse soprattutto, dalle critiche che vengono mosse all’azione oscura, in quanto viaggiano a fari spenti, nella notte delle regole, delle lobbies, accusate di divorare l’Italia. Come se il lobbying fosse un’attività criminosa, e non invece un veicolo d’informazione per le assemblee legislative, nonché di partecipazione per le categorie cui si rivolge la decisione del legislatore. Mentre invece sono da considerarsi un veicolo d’informazione per le assemblee legislative, nonché di partecipazione per le categorie cui si rivolge la decisione del legislatore. Una legge sulla regolamentazione delle lobbies, oltre a essere assai opportuna, deve essere promozionale e non repressiva. Ovvero deve favorire le forme collaborative degli interessi privati con quelli pubblici per migliorare le decisioni da assumere, secondo il motto einaudiano “conoscere per deliberare”.

Credo che sia opportuno evitare un eccesso di regolamentazione. Come se la preoccupazione non fosse quella di favorire la presenza e il contributo dei gruppi di interesse nella decisione pubblica, ma piuttosto di “ingabbiarli” con una serie di regole fin troppo specifiche e di eccessivo dettaglio. Fare una legge che regolamenti l’attività dei gruppi di interesse vorrebbe dire prevedere poche ma significative regole, allo scopo di consentire una corretta e trasparente agibilità delle lobbies. A cominciare dalla sua stessa definizione: sarebbe sufficiente prevedere, che per “attività di rappresentanza di interessi” deve intendersi ogni attività diretta a orientare la formazione della decisione pubblica, svolta anche attraverso la presentazione di proposte, documenti, osservazioni, suggerimenti, richieste di incontri; e il “rappresentante di interessi” è colui che svolge l’attività prima indicata.

E poi, una legge sulle lobbies, si ha motivo di ritenere che possa servire anche a rafforzare il ruolo del Parlamento: il quale, nello svolgere un’attività di mediazione fra la rappresentanza della volontà generale con il pluralismo sociale, può ritrovare un ruolo centrale di prestazione di garanzia e di integrazione dell’ordinamento. La crisi che caratterizza, ormai da tempo, le istituzioni partitiche, sempre meno collettori di interessi collettivi, induce sempre più a riconoscere e legittimare l’aggregazione e la sintesi degli interessi, ammettendoli a un’istruttoria procedimentale formale. Con l’obiettivo di favorire una migliore compenetrazione con l’interesse pubblico per costruire una migliore decisione. In una battuta finale: la democrazia esige trasparenza e la trasparenza esige una legge sulle lobbies.

[1] È merito dello studio di P.L. Petrillo, Democrazie sotto pressione. Parlamento e lobby nel diritto pubblico comparato, ed. Giuffrè, Milano 2011, avere avviato la riflessione giuridica sulle lobbies e la rappresentanza degli interessi.

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