In quei diciassette mesi, dalla rottura del Conte I alla fine del governo Draghi, i cui effetti sono stati sottovalutati dalla maggior parte degli osservatori politici, Giorgia Meloni ha gettato le fondamenta del successo elettorale dello scorso settembre. Pubblichiamo un estratto dal libro di Domenico Giordano, “La regina della rete”, che verrà presentato a Roma martedì 4 aprile
La domanda di fondo è una, semplice nella sua formulazione forse meno nell’articolazione della risposta: in quale momento è iniziata la scalata di Giorgia Meloni all’olimpo dei social network e quanto questa sia stata determinante per influenzare il risultato elettorale del 25 settembre 2022?
È possibile cristallizzare un inconfutabile punto di svolta, l’innesco che ha mutato la polarità con la quale i follower interagivano con i contenuti pubblicati? Un cambiamento del sentiment che ha spostato progressivamente l’ago del comportamento digitale degli utenti verso una tolleranza crescente, che a sua volta si manifesta con l’ampliamento progressivo della base dei follower. Insomma, prima ancora di una precisa strategia di presidio dei canali social – svelata dalla programmazione sincronica delle pubblicazioni sulle diverse piattaforme, dalle sponsorizzazioni e dalla personalizzazione dei contenuti grazie a una narrazione che potremmo definire “Giorgia based” – c’è stata una causa unanimemente riconosciuta che ha condizionato e indirizzato il consenso digitale a favore della leader di Fratelli d’Italia?
La risposta è sì. Anzi, ce ne sono due, intimamente legate l’una all’altra ed entrambe di matrice politica, una lunga finestra di opportunità aperta, a loro insaputa, dai due Matteo, Salvini prima e Renzi dopo. La frattura è racchiusa nell’arco temporale che si apre con la crisi del governo Conte I e si conclude con una seconda crisi di governo, quella del gennaio 2021 che sancisce la fine dell’esperienza di Giuseppe Conte e l’arrivo a Palazzo Chigi di Mario Draghi.
In quei diciassette mesi, i cui effetti sono stati sottovalutati dalla maggior parte degli osservatori politici, Giorgia Meloni ha gettato le fondamenta del successo elettorale dello scorso settembre.
La prima frattura diede vita al Conte bis e portò qualche settimana più tardi alla manifestazione battezzata “Orgoglio Italiano”, voluta fortemente dalla Meloni e organizzata da Fratelli d’Italia il 19 ottobre a Roma. In quell’occasione dal palco di Piazza San Giovanni, la Meloni pronunciò il celeberrimo passaggio «Io sono Giorgia», che nei giorni successivi grazie al montaggio – remix fatto dal collettivo Mem&J –, è diventato un mega tormentone, tanto che su TikTok l’hashtag #iosonogiorgia fino a oggi ha collezionato oltre 73 milioni di visualizzazioni video. Quel meme canoro ha rappresentato la miccia che ha consentito, seppur indirettamente perché non voluto, né cercato dalla diretta interessata, il passaggio definitivo della comunicazione di Giorgia Meloni in una dimensione pop e nazionale.
Con la seconda crisi di governo, i numeri digitali delle interazioni ai post, l’engagement complessivo sia degli account personali e in generale della rete, così come le menzioni digitali e i follower registrano dei saldi positivi che continueranno a essere tali e a crescere anche nei mesi successivi per raggiungere poi il picco tra luglio e settembre dell’anno passato. È questa la finestra di opportunità che consente a Giorgia Meloni di conquistare sul campo i galloni digitali di platform leader.
Al 31 dicembre del 2019, Matteo Salvini era ancora il principe delle interazioni social e il fossato tra lui e gli altri era all’apparenza incolmabile. Basti pensare che nei dodici mesi di quell’anno i tre account di Salvini avevano totalizzato 361,6 milioni di interazioni: 178 milioni raccolte dalla pagina Facebook, che contava già 3,8 milioni di fan, altri 164,2 milioni su Instagram il cui account segnava 1,9 milioni di follower e, per finire in bellezza l’anno social, c’erano ben 19,4 milioni di interazioni totali dell’account Twitter, anche questo con 1,3 milioni di follower al seguito.
Il distacco dall’alleata era consistente. Infatti, nello stesso periodo Giorgia Meloni riusciva a portare il totalizzatore delle interazioni a 64,3 milioni, quindi con uno scarto rispetto al leader leghista di poco meno di 300 milioni. Un’enormità. Un volume così ampio da rendere velleitario, almeno sulla carta, ogni tentativo di recupero e rincorsa. Giorgia Meloni aveva incassato 42,5 milioni di interazioni su Facebook, dove poteva contare su un fandom di 1,3 milioni di fan, meno della metà su Instagram dove le interazioni totali erano state 17,7 milioni e i follower non toccavano neanche il milione, appena 510 mila, mentre l’account Twitter che di follower ne aveva 853 mila era riuscito a mettere nel fienile a fine anno 4,1 milioni di interazioni.
A fine dicembre dell’anno scorso, gli account di Giorgia Meloni avevano ottenuto complessivamente 80,4 milioni di interazioni totali, in crescita rispetto al dato assoluto di partenza del 2019 di circa il 25%, ma non quanto si poteva pronosticare se non fossero stati apportati gli interventi di modifica alla portata dei post delle pagine e degli account pubblici, mentre quelle di Matteo Salvini precipitano a 68 milioni, con una perdita secca di 293 milioni di interazioni.
Di queste interazioni totali, sia Salvini che Meloni ne ottengono entrambi circa 7 milioni solo su TikTok, piattaforma esclusa dal conteggio nel 2019. Concettualmente è utile fare una precisazione: l’equazione 1 like = 1 voto è palesemente falsa, terribilmente fuorviante per chi volesse crederci. Eppure, per quanto i nostri like, wow o love, ogni condivisione di un post pubblicato non vivranno mai dell’automatismo che li muta geneticamente in un voto, non è da trascurare affatto il controvalore psicologico e simbolico che si porta dietro ciascuna reaction. Innanzitutto, il like al post o alla pagina è un riduttore, a basso voltaggio, della distanza che l’anti-politica ha in questi ultimi tre decenni divaricato oltremodo tra cittadini, istituzioni e politica. È un micro-deposito di fiducia e di attenzione sul conto corrente in rosso della politica e dei leader, per quanto fragile e instabile, il like è una sintomatologia da non trascurare per misurare nel tempo quanto la terapia per ridare credibilità e reputazione all’agire politico del leader stia funzionando o meno.