Secondo l’ordinario di diritto amministrativo all’Università di Catania, le province meritano di essere ripristinate e di esercitare le loro funzioni. E, soprattutto, è impensabile affrontare il tema dell’autonomia differenziata senza prevedere una perequazione dello Stato in favore del Mezzogiorno per uniformare i LEP su tutto il territorio nazionale
Le province sono tornate al centro del dibattito pubblico. La riforma Delrio non aveva abolito l’ente territoriale più vicino ai comuni italiani, ma ha escluso la partecipazione diretta dei cittadini dalle procedure di voto, prediligendo il suffragio ristretto. Ma il discorso è molto più complesso e interessante di quel che appare. La riforma del 2014 puntava a ottenere un considerevole risparmio e una configurazione territoriale più snella ed equilibrata. Ci è riuscita? Cosa comporterebbe un loro ripristino? Ne parliamo con il Prof. Antonio Barone, ordinario di Diritto Amministrativo presso l’Università di Catania, direttore della rivista Il Processo, edita da Giuffrè Lefebvre, e consulente della I Commissione Affari Istituzionali dell’Assemblea Regionale Siciliana.
Partiamo dalla riforma Delrio del 2014. Quali sono state le ricadute sul piano politico e dell’assetto territoriale?
La legge Delrio ha avviato un percorso di sostanziale ridimensionamento delle funzioni dell’ente provincia, ridisegnato come ente di secondo grado privo di rappresentanza diretta delle proprie comunità di riferimento. Proprio per questo la legge risulta legata a filo doppio con la successiva riforma costituzionale dell’aprile 2016, che prevedeva addirittura l’abolizione delle province. Come è noto, con il referendum costituzionale del dicembre 2016 i cittadini italiani hanno bocciato il progetto di riforma costituzionale. Si è quindi verificato una sorta di cortocircuito: la legge Delrio, sopravvissuta ad una riforma costituzionale mai entrata in vigore, si confronta ormai con l’immutata dimensione costituzionale della provincia quale ente territoriale esponenziale degli interessi dei cittadini.
Questo cortocircuito è evidente almeno sotto due punti di vista. Anzitutto, la legge ha trasformato gli enti di area vasta in enti di secondo grado, spezzando il meccanismo di rappresentanza democratica diretta (garantendo, semmai, una rappresentanza solo indiretta). Lo stesso deve dirsi per le città metropolitane, i cui meccanismi di rappresentanza sono stati recentemente oggetto di censura, seppur in via indiretta, da parte della Corte costituzionale (sentenza n. 240/2021).
Altro profilo di criticità riguarda la questione della non sempre felice e chiara definizione delle funzioni fondamentali delle province, nonché la correlata tematica della riallocazione delle c.d. funzioni non fondamentali degli enti provinciali, che la legge Delrio ha affidato anche alle regioni. Le leggi regionali attuative di queste previsioni sono tra loro assai disomogenee; in vari casi si è scelto di riallocare le funzioni provinciali addirittura a livello regionale, così avallando inediti modelli di neocentralismo regionale (segnalo al riguardo un interessante studio dell’Issirfa). La riforma del 2014 non è quindi riuscita a rispondere pienamente agli obiettivi di semplificazione amministrativa, di modernizzazione e di flessibilità ordinamentale che si prefiggeva di raggiungere.
Quali servizi erogano le province e quali interessi tutelano? Perché è necessario un loro ripristino?
Le province, in particolare, sono titolari di funzioni amministrative in diversi settori rilevanti, quali, ad esempio, la difesa del suolo e dell’ambiente, i beni culturali, la viabilità, il trasporto, parchi e protezione della fauna, svolgendo al contempo un importante ruolo di cerniera fra i diversi livelli di governo, in particolare fra regioni ed enti (soprattutto) comunali. La legge Delrio, tuttavia, individua in modo piuttosto generico le funzioni “fondamentali” della provincia quale ente “di area vasta” (art. 1, comma 85). Come segnalato in vari documenti dell’Unione Province Italiane, occorre oggi individuare in dettaglio le specifiche funzioni amministrative provinciali all’interno delle macroaree già individuate dal legislatore statale. Ad esempio, le competenze in materia di tutela e valorizzazione ambientale potrebbero essere meglio declinate attraverso l’attribuzione analitica agli enti provinciali delle competenze in materia di autorizzazioni e controlli ambientali, di programmazione e organizzazione (non gestione) del servizio di smaltimento rifiuti come di altri servizi ambientali.
Inoltre, sempre in una prospettiva di futura ed auspicata riforma, gli enti provinciali possono diventare realmente un punto di riferimento e di supporto amministrativo per gli enti comunali, ad esempio in materia di appalti pubblici, diventando per ogni territorio provinciale la stazione unica appaltante territoriale per le commesse pubbliche più rilevanti. Analogamente, le province possono svolgere concretamente un ruolo essenziale di supporto amministrativo per i comuni in materia di transizione digitale. Su questi aspetti è ormai maturato il tempo di una riforma organica della materia, come dimostrano alcuni disegni di legge già varati a livello statale, così come alcune iniziative regionali di interesse (ad esempio, si è mossa per tempo l’Assemblea Regionale Siciliana, con la I commissione).
Riavviare gli enti provinciali, sia sul fronte della governance democratica che su quello delle funzioni, significa migliorare la qualità dei servizi per i cittadini. Tutto ciò presuppone anche che la politica affronti il “nodo” delle risorse: al di là della questione delle “poltrone”, il potenziamento delle funzioni provinciali richiede anche le risorse organizzative e finanziarie necessarie affinché tali funzioni siano adeguatamente esercitate. Se non si affronta questo “nodo” delle risorse organizzative e finanziarie qualunque riflessione su possibili riforme rischia di essere vana.
L’ossessione del “taglio delle poltrone” ha allontanato il dibattito dal tema reale. Dopo il riassetto previsto dalla riforma Delrio, c’è stato un risparmio effettivo per le casse dello Stato?
Condivido l’idea di fondo della sua domanda: se poniamo la questione esclusivamente in termini di “taglio delle poltrone” rischiamo di non comprendere fino in fondo il corto circuito politico-amministrativo che si è innescato. Il depotenziamento delle province, infatti, riguarda un ente di rilievo costituzionale, esponenziale degli interessi dei cittadini che risiedono nel territorio provinciale. Se, poi, alcune delle funzioni provinciali vengono addirittura devolute alle regioni, come è talora avvenuto in attuazione della legge Delrio, si mortifica anche il principio costituzionale di sussidiarietà verticale, in base al quale le funzioni amministrative devono essere svolte al livello di governo più vicino ai cittadini. Il tema della governance e della rappresentanza diretta da assicurare anche a livello provinciale e di città metropolitane è consequenziale e, a mio avviso, inevitabile. La democrazia rappresentativa ha i suoi costi, sui quali si può anche ragionare abbandonando inutili prospettive populiste, ma senza mai demonizzare il principio supremo della rappresentanza.
Per quanto riguarda le regioni, lei avverte la necessità di una revisione delle rispettive legislazioni? Bisogna mettere mano al titolo V? Perché?
La riforma costituzionale del 2001, di modifica del Titolo V della Costituzione, presenta alcune criticità. Basti pensare al fatto che, ad esempio, la materia “trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” risulta attribuita alla competenza legislativa concorrente regionale. Il tema del regionalismo differenziato è figlio della riforma costituzionale del 2001 perché concerne l’attuazione dell’art. 116, comma 3, della Costituzione. In linea di principio io non ritengo che la prospettiva del regionalismo differenziato sia di per sé dannosa per il paese. Ben prima della riforma costituzionale del 2001, che ha introdotto la possibilità di forme differenziate di autonomia regionale, esistevano già (e continuano ad esistere) le regioni “a statuto speciale”, dotate di autonomia rafforzata rispetto a quelle ordinarie.
La questione dirimente, invece, è quella dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP). Il “divario di cittadinanza” tra il Mezzogiorno ed il centro-nord si è da tempo acuito e occorre intervenire in modo drastico su questo tema, come si è ricominciato finalmente a fare con il PNRR. In alcuni miei scritti recenti ho parlato di “dovere costituzionale” di perequazione dello Stato in favore del Mezzogiorno, per uniformare i LEP su tutto il territorio nazionale. Questo dovere di perequazione statale concerne anche il tema delle infrastrutture, rispetto al quale il sud rappresenta una vera cenerentola, con alcune aree della Sicilia dotate della rete ferroviaria di fine ‘800!
Insomma, nessuna contrarietà pregiudiziale al regionalismo differenziato se si affronta prioritariamente ed in modo risolutivo il tema dell’uniformità dei LEP su tutto il territorio nazionale. Ciò significa garantire al Mezzogiorno di raggiungere i livelli di eccellenza del centro-nord. Emblematico il caso degli asili nido. Questa uniformità di servizi e prestazioni essenziali deve essere realizzata prendendo a parametro di riferimento (almeno in linea tendenziale) il livello più alto dei servizi e non invece quello più basso: è questa la vera garanzia dell’unità ordinamentale sancita dall’art. 1 e art 114 della carta costituzionale. Anche in questo caso il nodo essenziale sarà quello delle risorse, senza le quali ogni progetto di riforma resterà inutile.
Lei ritiene che la sanità debba subire un processo di centralizzazione?
La crisi pandemica ha acceso i fari dell’opinione pubblica sull’organizzazione sanitaria. In realtà, il problema della coesistenza di diversi modelli organizzativi sanitari regionali esiste da tempo e trova piena legittimazione nella riforma costituzionale del 2001, del Titolo V, parte II, della nostra Costituzione. Nonostante alcune evidenti criticità di questa riforma costituzionale, pur considerando alcuni eccessi patologici della sanità regionale che vanno puntualmente denunciati e combattuti, io non penso che la via del “centralismo” in materia sanitaria garantisca di per sé un maggiore efficienza del SSN. In realtà, proprio il settore sanitario è pervaso anche da forme di neo-centralismo. Mi riferisco, in particolare, all’esperienza dei “piani di rientro” in materia sanitaria, che hanno vincolato e continuano a vincolare l’autonomia regionale sulla base di appositi accordi tra Ministero della Salute, MEF e singola regione interessata.
Questi “piani di rientro” devono contenere sia le misure volte a garantire l’erogazione dei servizi sanitari nel rispetto dei livelli essenziali di assistenza (c.d. LEA), sia le misure per garantire l’equilibrio di bilancio sanitario regionale. La forza di compressione dell’autonomia regionale di questi piani di rientro è fortissima; una legge dello Stato stabilisce, addirittura obbliga ciascuna regione interessata a rimuovere i provvedimenti, anche legislativi, e a non adottarne di nuovi, che siano di ostacolo alla piena attuazione del piano di rientro.
È sufficiente navigare sul sito internet del Ministero della Salute per rendersi conto delle dimensioni del fenomeno; ben 10 regioni italiane, infatti, sono state interessate dai “piani di rientro” in materia sanitaria: Lazio, Abruzzo, Liguria, Campania, Molise, Sicilia, Sardegna, Calabria, Piemonte, Puglia. Gran parte delle richiamate regioni, a circa quindici anni dall’avvio di questa esperienza, continuano ad essere sottoposte ai “piani di rientro” (solo Liguria, Sardegna e Piemonte sono definitivamente fuori). La normativa di settore prevede anche che il Consiglio dei Ministri possa procedere al commissariamento in materia sanitaria della singola regione, qualora in sede di monitoraggio del piano di rientro emergano gravi inadempienze regionali nel rispetto delle previsioni di piano. Ed è così che si è proceduto al commissariamento in materia sanitaria delle regioni Calabria e Molise.
Tutto ciò documenta la persistente esistenza del centralismo statale in materia sanitaria. Senza voler cadere in banali generalizzazioni, dobbiamo chiederci se, in linea di massima (e con tutte le eccezioni del caso), sia possibile o meno scorgere un marcato miglioramento nella qualità dei servizi sanitari di queste regioni da anni sottoposte alle descritte forme di neo-centralismo sanitario.