Il generale disinteresse per il mondo militare può essere considerato un vantaggio che ha permesso alle Forze armate di agire praticamente indisturbate, al riparo dell’attenzione dell’opinione pubblica e della politica. Ma è ora necessaria un’inversione di tendenza e il quadro politico, anche per le sollecitazioni della guerra in Ucraina, sembra voler accettare un ruolo più attivo. L’analisi del generale Leonardo Tricarico, già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare e presidente della Fondazione Icsa
Non è una novità che l’Italia sia disattenta ai problemi della sicurezza e della Difesa e che il mondo della politica sia stato e sia fondamentalmente allineato e in sintonia con tale colpevole incultura. Sono pochi i ministri della Difesa che nel secondo dopoguerra si sono discostati da tale peculiarità socio-politica del nostro Paese, interpretando in maniera più attenta, concreta e professionale il loro mandato.
Pur con una casistica di comportamenti ampia, non è però facile valutare se il generale disinteresse per il mondo militare sia stato un vantaggio o un inconveniente, un peso che abbia influito sulla preparazione e sull’adeguatezza delle Forze armate all’assolvimento della loro missione. Personalmente propendo per la prima ipotesi, ossia che, anche per come il mondo politico è mutato, le Forze armate abbiano potuto agire praticamente “indisturbate”, al riparo dell’attenzione dell’opinione pubblica e della politica.
Immaginiamo, ad esempio, che aiuto avrebbe potuto dare un presidente del Consiglio convinto – come è realmente successo – che i sistemi d’arma siano catalogabili in offensivi e difensivi, e su queste basi approntare lo strumento militare. Sono semplici e pure oscenità che avrebbero segnato la discussione pubblica e impedito un sostanziale processo di allestimento dello strumento militare.
Invece le Forze armate hanno avuto mano libera nelle attività progettuali e operative, pur dovendo tollerare rumori di fondo quali le critiche per fenomeni deleteri interni o scelte messe in sindacato perché in certi momenti era inevitabile che l’opinione pubblica non se ne occupasse.
Fortuna ha voluto che la briglia sia stata lasciata sciolta a servitori dello Stato, a persone perbene che hanno messo l’autonomia loro concessa al servizio del pubblico interesse, impiegando le risorse secondo criteri di buona amministrazione.
L’Aeronautica in particolare si è portata avanti in specifiche capacità pregiate o perfino abilitanti, grazie sia ai criteri di buon management citati, sia all’esperienza sul campo, quando è stata chiamata (praticamente sempre) a integrare missioni internazionali di pace o di guerra. L’armamento di precisione è figlio della prima guerra del Golfo e del ruolo in essa avuto dal generale Mario Arpino, il quale ha promosso e monitorato la crescita nel settore. Anche l’Unmanned è un output della guerra dei Balcani del 1999: il primo vero debutto operativo dei droni allora ancora imperfetti e disarmati, mostrò con estrema chiarezza le loro potenzialità militari. L’Aeronautica militare prese il treno al volo e l’impegno degli anni successivi l’ha portata a essere leader europea nell’utilizzo degli Uav. La guerra dei Balcani ha anche permesso di organizzare meglio le capacità di comando e controllo di operazioni belliche complesse. Le operazioni del 1999 furono un valido banco di prova per professionalizzare gli operatori, mettere a punto le strutture, gli apparati e i collegamenti necessari, individuare le procedure più corrette per gestire con efficacia operazioni militari complesse. Oggi, questo livello di professionalità lo abbiamo noi più di chiunque altro in Europa.
Il caccia di quinta generazione è un rilevante esempio di come la Forza armata sia riuscita a raggiungere traguardi importanti, bruciando sul filo di lana gli altri europei, nonostante la palla al piede di una stampa pessima e di una politica troppo attenta agli umori della gente più che alla Difesa. Quando è scoppiata la polemica sui costi del programma F-35 era ormai tardi per fare dietrofront, i passaggi governativi e parlamentari di autorizzazione al prosieguo nel programma, compiuti nella sonnolenza generale, erano così vincolanti che il treno ha dovuto proseguire senza stop, nonostante un’ipotizzabile paletta rossa della politica e forse anche dell’industria di settore.
Una rassegna delle eccellenze raggiunte dalla nostra Aeronautica negli ultimi anni deve registrare la capacità Caew, che è già ora una componente aggiornata di punta a nostra disposizione e che in prospettiva, con il completamento della flotta di piattaforme airborne, non avrà pari anche dal punto di vista dimensionale, oltre che qualitativo. Oggi però è necessaria un’inversione di tendenza e il quadro politico, anche per le sollecitazioni della guerra in Ucraina, sembra voler accettare un ruolo più attivo. Un’inversione di tendenza in cui la politica può aiutare il mondo militare a portare in Europa le capacità così faticosamente messe a punto, affinché le eccellenze acquisite siano i pilastri su cui edificare uno strumento militare comune.
Sarebbe imperdonabile – ma non incredibile, dati i nostri trascorsi – che l’Italia si presentasse al laboratorio di una Difesa comune come portatrice d’acqua e non come elemento trainante in uno scenario in cui è in grado di esprimere il meglio a livello internazionale. Perché questa è la fine che si farebbe se la politica non comprendesse le prospettive nazionali nell’impresa comune e non rivendicasse un ruolo-guida. Ma per farlo serve un cambio radicale di registro, per acquisire consapevolezza di quanto le nostre Forze armate siano avanti rispetto ad altri Paesi. Pretendendo giustamente di indicare la strada ad altri rimasti più indietro, mediante un ruolo-guida, quando (si spera presto) si comincerà a costruire un dispositivo europeo di Difesa comune e quando le responsabilità andranno suddivise secondo le capacità e non altri parametri in cui il nostro Paese potrebbe ancora essere tenuto fuori dal salotto buono.