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La Georgia e l’epopea di Saak’asvili nel libro di Flammini

Di Micol Flammini

L’ex presidente della Georgia Mikheil Saak’asvili ha dichiarato di essere vicino alla morte perché avvelenato in prigione. Il governo di Tbilisi nega ogni responsabilità, ma la sua vita è diventata uno dei motivi di contenzioso con Bruxelles, che ha detto senza mezzi termini alla Georgia che dovrà dimenticare ogni ambizione europea qualora dovesse succedere qualcosa all’ex presidente. Pubblichiamo un estratto de “La cortina di vetro. Vecchie paure e nuovi confini. L’Europa dell’est oltre il passato sovietico” di Micol Flammini (Mondadori)

Se l’Unione europea si dissolvesse oggi sotto i colpi delle ossessioni centrifughe e delle rivendicazioni nazionalistiche, ne uscirebbero ventisette Stati che dovrebbero reinventare il loro sistema monetario, gli accordi commerciali, i rapporti alle frontiere e che dovrebbero anche gestire le spinte centrifughe interne di movimenti indipendentisti, piccoli terremoti nazionali capaci di far scoppiare dissapori, recriminazioni e persino conflitti.

Dopo l’uscita del Regno Unito nel 2017, l’appartenenza all’Unione europea è messa sempre meno in discussione anche dai partiti che un tempo minacciavano di accodarsi all’effetto Brexit, perché si sono accorti che farne parte assicura più vantaggi che starne fuori.

Alla fine degli anni Ottanta, in pochi credevano che rimanere dentro all’Unione Sovietica fosse più proficuo, ma quando il blocco cessò di esistere, le ex repubbliche dovettero affrontare un profondo processo di cambiamento, che comportò lo smantellamento di un mercato integrato, una moneta unica, una lingua condivisa, un sistema di produzione esteso che aveva reso ogni parte dell’enorme Stato dipendente dalle altre, e questo processo ha prodotto effetti che si avvertono ancora oggi.

Il nome completo dell’Unione Sovietica era Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, e la sua composizione era complessa. C’erano quindici repubbliche principali che godevano di un loro grado di autogestione accordato dal potere centrale e si identificavano come Repubbliche socialiste sovietiche: Lituania, Lettonia, Estonia, Bielorussia, Ucraina, Russia, Moldavia, Georgia, Armenia, Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan.

Al loro interno si distinguevano le repubbliche socialiste sovietiche autonome e le oblast’ autonome, suddivisioni amministrative, sottorepubbliche, che, contrariamente alle repubbliche socialiste sovietiche, non avevano il diritto di uscire dall’Urss e non avevano un partito comunista locale.

Questo sistema articolato era però riuscito a garantire anni di stabilità nei rapporti, regolati da una certezza granitica: si era prima sovietici, e poi tutto il resto. I confini erano stati stabiliti in modo millimetrico, l’obiettivo iniziale era assicurare un certo grado di omogeneità culturale e linguistica, ma quando l’Unione Sovietica cadde, si portò dietro anche le macerie di questa suddivisione e ottennero l’indipendenza soltanto le quindici repubbliche socialiste sovietiche, aprendo la strada ad anni di rivendicazioni e conflitti.

Nel ridisegnare i confini nazionali, non si era tenuto conto delle specificità delle oblast’ e delle repubbliche autonome, che erano meno grandi delle nazioni principali, ma conservavano un ricco patrimonio di specificità culturali, linguistiche e anche religiose: certo non era per quest’ultimo aspetto che l’ateismo sovietico aveva deciso di concedere loro uno spazio di autonomia.

Queste terre miste, e sovente di confine, erano disposte a sentirsi sovietiche, ma consideravano inaccettabile essere risucchiate da altre identità statali. La fine dell’Urss aveva dissolto i legami, ricordato le diversità e aperto a una stagione di conflitti in cui spesso la nostalgia per i tempi andati, per il mondo perduto, ha creato l’illusione che fosse meglio essere russi che georgiani, o armeni, o moldavi.

Sono nati frammenti di Russia, aspiranti nazioni che si considerano legate a Mosca e che hanno spesso offerto al Cremlino il pretesto per rosicchiare parti di territorio altrui e far sentire che la sua dominazione non è mai finita. Se si scava nella storia, c’è sempre un peccato originale e l’inizio dei conflitti di oggi è in realtà molto antico, risale a un periodo costruito in fretta e chiuso di corsa, senza guardarsi troppo indietro.

Quando l’Urss è collassata, in tanti speravano che le linee interne a quel gigantesco territorio, che viste da Mosca sembravano squarci, ferite per infierire sul sogno sovietico ormai sepolto, sarebbero state tracciate tenendo conto delle diversità territoriali. Non si ebbe il tempo, né in alcuni casi la voglia di considerare dei distinguo e si ritenne più comodo e veloce ridisegnare lo spazio postsovietico seguendo le linee di confine delle repubbliche socialiste sovietiche, che conservavano un sistema di istituzioni parastatali dalle quali sarebbe stato più semplice ripartire.

La fretta fece il grosso, ma adottare un principio di divisione del territorio che tenesse conto anche dei sottoinsiemi, delle oblast’ e delle repubbliche autonome, avrebbe danneggiato soprattutto la Russia, che al suo interno contava e conta tuttora – ben sedici delle venti repubbliche socialiste sovietiche autonome. Tra queste c’è anche la Cecenia, che ripetutamente cercò la propria strada verso l’indipendenza, mentre Mosca scatenò due guerre per impedirla.

Anche attorno alla Russia, però, sono scoppiati altri conflitti derivanti da quel peccato originale di definizione dei confini, ma contrariamente alla Cecenia, a ribellarsi furono aspiranti nazioni che rivendicavano il proprio diritto di sentirsi più vicine a Mosca. Era come se nel corpo in ricostituzione dell’Unione Sovietica fossero rimaste qua e là schegge di Russia, pronte a dichiarare guerra pur di determinare o un ritorno al passato o una nuova divisione territoriale. E il Cremlino ha sempre accolto con favore l’opportunità di poter tornare su un territorio che non ha mai smesso di considerare suo e di approfittare di conflitti che gli hanno sempre permesso di insidiare la nuova unità dei suoi vecchi alleati.

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L’epopea di Saak’asvili

In Georgia, come nella maggior parte degli Stati postsovietici, il livello di corruzione era altissimo, il passaggio dall’economia pianificata a quella di mercato stava portando gli stessi traumi ovunque, ma Saak’asvili, per ovviare, cercò di aprire maggiormente il Paese all’Occidente, cambiò gran parte del corpo di polizia, aumentò gli stipendi e diede la caccia al contrabbando che veniva soprattutto dalla Russia.

Voleva uno Stato moderno, efficiente, sul modello occidentale. Avrebbe voluto portare la Georgia nell’Unione europea, ma, essendo il processo lungo e tortuoso, cercò di portare in qualche modo l’Unione europea in Georgia e così per le strade di Tbilisi si resta sorpresi nel vedere sventolare ovunque, in gran numero, le bandiere blu con le dodici stelle dorate.

I georgiani furono tra i primi a capire che per tenere la Russia fuori dai loro affari nazionali, avrebbero dovuto affidarsi ad altri e, con entusiasmo, iniziarono a intensificare i rapporti con gli europei e gli americani. Saak’asvili, però, si era messo in testa anche di risolvere la questione delle repubbliche secessioniste, avrebbe voluto integrarle nel territorio georgiano pur consentendo un buon grado di autonomia, ma epurandole da quella dipendenza dalla Russia che costituiva una minaccia per la sicurezza della Georgia.

La ristrutturazione dello Stato avviata da Saak’asvili contemplava anche l’adozione di una nuova bandiera, che in realtà era la stessa dell’antico Regno georgiano, di un nuovo stemma e di un nuovo inno nazionale, che nelle prime strofe recita: «La mia icona è la mia patria, e il mondo intero il suo supporto».

Il presidente fece anche richiesta di adesione all’Alleanza atlantica. Era il 2008 e alcuni paesi che facevano parte della NATO accolsero la richiesta con scetticismo. A opporsi furono soprattutto la Germania e la Francia, preoccupate di una possibile ritorsione russa, che infatti non si fece attendere. Alla mossa di Saak’asvili, Putin reagì organizzando in agosto delle esercitazioni militari vicino al confine con la Georgia. Dall’altra parte della frontiera, Tbilisi rispose con esercitazioni militari organizzate assieme agli americani.

C’erano molti segnali che quello russo non fosse soltanto un addestramento: gli uomini e i soldati dell’esercito di Putin erano rimasti vicino al confine oltre il tempo previsto per le manovre annunciate; Mosca stava procedendo all’evacuazione di donne e bambini dall’Ossezia del Sud verso quella del Nord, che si trova in territorio russo, e il Cremlino aveva preso a denunciare le violenze dei georgiani contro la popolazione osseta, esattamente come prima di annunciare l’invasione dell’Ucraina nel 2022 ha accusato il governo di Kiev di compiere un genocidio contro i russi nella regione del Donbas.

Per placare la situazione, Saak’asvili deliberò l’avvio di una tregua unilaterale, sperando che l’annuncio avrebbe spinto i russi a trattare, a fermarsi, ma la sera dell’8 agosto fu un tormento e i villaggi della Georgia vicini al confine con l’Ossezia del Sud subirono diversi attacchi. Il presidente georgiano venne informato che Mosca stava preparando un’offensiva volta a colpire in profondità la nazione. Con le spalle al muro e sapendo che l’esercito georgiano non sarebbe riuscito a competere con quello russo, Saak’asvili ritirò la tregua e attaccò, pensando di poter prendere il Cremlino di sorpresa. Putin, invece, era prontissimo e anche i suoi carri armati lo furono a entrare nel territorio georgiano.

Andando a caccia di similitudini tra l’attacco in Georgia e quello in Ucraina, ecco che ne spunta un’altra. Nel 2008 in Cina c’erano le Olimpiadi e Putin era stato invitato a Pechino insieme ad altri leader internazionali per l’apertura dei Giochi, che si teneva proprio l’8 agosto. Hu Jintao, allora segretario del Partito comunista cinese, non perdonò mai al capo del Cremlino di aver oscurato lo spettacolo infrangendo la tregua olimpica.

Nel 2022, quando i Giochi invernali si sarebbero tenuti a Pechino, ci si è domandati se Putin avrebbe replicato lo stesso sgarbo alla Cina, attaccando l’Ucraina durante un’altra tregua olimpica. Il presidente cinese Xi Jinping ha fatto però scelte diverse rispetto al suo predecessore e, per l’apertura delle Olimpiadi, anziché circondarsi di capi di Stato e di governo provenienti da tutto il mondo, ha invitato soltanto il leader russo.

Prima di presenziare alla cerimonia, i due hanno tenuto un lungo colloquio durante il quale sia i russi sia i cinesi escludono si sia parlato dell’intenzione di attaccare Kiev. Per iniziare la guerra, questa volta, Putin ha aspettato la cerimonia di chiusura, che si è tenuta il 20 febbraio. La seconda guerra tra Ossezia del Sud e Georgia scoppiata l’8 agosto 2008 durò cinque giorni.

I russi bombardarono anche Gori, la città natale di Stalin, dove la poverissima casa in cui il dittatore è cresciuto con la madre è custodita dentro la mastodontica struttura di un museo a lui dedicato. Cosa poteva esserci di più contraddittorio di un bombardamento russo su Gori? Della furia distruttiva dei caccia scatenata da un presidente che non ha mai nascosto di considerare la fine dell’Unione Sovietica una tragedia contro la città in cui era nato il dittatore più efferato dell’Urss?

Gori è diventata l’emblema di quella guerra d’agosto, era in una posizione strategica e venne anche occupata dalle truppe russe. Che fosse la città di Stalin a fare le spese del nuovo espansionismo russo sembrò un fatto di grande rilevanza, anche simbolica, e molti georgiani, soprattutto tra i più anziani, si chiedono ancora se il dittatore avrebbe approvato o condannato. La maggior parte concorda nel dire che avrebbe senza dubbio approvato.

Gori ancora oggi sembra ferita, non ha la vitalità di Tbilisi, sembra ferma a qualche decennio fa, e i suoi cittadini ricordano bene le immagini della guerra, in particolare quella della sagoma del dittatore georgiano che si staglia contro il fuoco dei bombardamenti: in molti dicono di aver pensato che stesse ridendo. Nel 2010 fu Saak’asvili a ordinare la rimozione della statua di Stalin: sapeva bene quanto il rapporto con l’illustre georgiano fosse ambiguo e divisivo per la popolazione e aveva capito che non sarebbe stata una buona mossa buttarlo giù a picconate.

Decise piuttosto di calarlo dal suo piedistallo con calma, spostarlo e consegnarlo alla storia e al suo museo. Il cessate il fuoco venne negoziato dai francesi in tempi rapidi, i russi si ritirarono da Gori e dalle altre città che avevano occupato, ma riconobbero l’Ossezia del Sud e l’Abcasia come Stati indipendenti. Nonostante le morti, gli sfollati, la violenza, le relazioni dei paesi occidentali con la Russia rimasero immutate.

Putin aveva dato prova di poter violare il territorio di uno Stato sovrano e aveva dimostrato la sua capacità di ostacolare le ambizioni europee e atlantiste di un paese confinante. In quello stesso anno Saak’avili aveva ottenuto un secondo mandato come presidente, ma il suo rapporto con i georgiani iniziò a deteriorarsi per motivi che poco avevano a che fare con la guerra, per la quale nessuno crede ci siano altri colpevoli se non il Cremlino.

Saak’asvili aveva capito che cosa non andava in Georgia, era un instancabile riformatore, un accanito nemico della corruzione, ma non sempre condusse la sua lotta con metodi del tutto democratici e pacifici, e iniziò semmai a sviluppare un’acuta insofferenza nei confronti del dissenso. Nel 2012 perse le elezioni e due anni dopo andò in Ucraina, dove lo attendeva una seconda vita politica. L’Ucraina aveva guardato e studiato la sua Rivoluzione delle rose, per Kiev Tbilisi era un modello, e quando nel 2014 iniziarono le proteste di Euromajdan, fu Saak’asvili a pensare che quell’esempio avrebbe potuto essere utile per la nuova Ucraina che stava nascendo.

Dopotutto era lo stesso Petro Porošenko, che poi venne eletto, a ritenere che l’ex capo di Stato georgiano e alcuni dei suoi collaboratori avrebbero potuto insegnare come si costruisce una nazione proiettata verso l’Occidente. Saak’asvili, che parla ucraino e ha studiato a Kiev, fu felice di collaborare e venne nominato governatore di Odessa con tanto di cittadinanza ucraina, il che comportò la perdita di quella georgiana.

Non si sa chi sia stato il primo a pentirsene, se Porošenko o Saak’asvili, ma tra i due finì molto male, con accuse reciproche di corruzione e con il georgiano divenuto ucraino che era ormai l’acerrimo nemico del presidente.

Divenne una sfida personale, Saak’asvili iniziò a organizzare manifestazioni contro Porošenko per chiederne le dimissioni. Il georgiano riuscì a catalizzare l’attenzione dell’opposizione e lavorò alacremente alla distruzione del personaggio di Porošenko, che cercò di farlo arrestare; e tra le fughe del georgiano dalla polizia ucraina ne è rimasta celebre una per i tetti di Kiev.

Porošenko, stremato, gli tolse la cittadinanza, ma gli fece la cortesia di non estradarlo in Georgia, dove era ricercato, bensì di mandarlo in Polonia. Appena toccato il suolo polacco, Saak’asvili, ormai apolide, promise di non dare tregua al presidente ucraino neppure da lì.

È stato Volodymyr Zelens’kyj a riabilitare l’ex presidente georgiano, restituendogli la cittadinanza ucraina e affidandogli un ruolo nel Consiglio nazionale per le riforme: gli era rimasta addosso, nonostante tutto, quella fama di gran riformatore, di rivoluzionario che aveva davvero fatto la guerra alla corruzione e ai retaggi del mondo sovietico.

Saak’asvili, però, tanto ambizioso quanto imprudente, anziché rimanere al fianco del nuovo presidente ucraino, nel 2021 ha deciso di fare ritorno in Georgia, dove pensava di poter essere accolto da trionfatore, nonostante non avesse più la cittadinanza e nel frattempo fosse stato condannato in contumacia per abuso d’ufficio.

Appena messo piede sul suolo georgiano è stato arrestato, eppure rimane ancora il motore della politica georgiana, il catalizzatore dei dibattiti, il centro della polarizzazione tra chi è con e chi è contro Micheil Saak’asvili. L’ex presidente è ancora in prigione, trasfigurato e malato, ha accusato i suoi carcerieri di aver tentato di avvelenarlo. Tracce di arsenico e di mercurio sono state trovate nelle unghie e nei capelli, e il suo corpo presenta segni di violenze, documentati da un avvocato americano che è andato a trovarlo in prigione.

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