Schlein chiamata al banco di prova della guerra. Non ci sono dubbi su chi sia il duellante più debole nel conflitto in corso. E la sinistra rivendica da sempre di stare dalla parte dei più deboli
Sarà l’Ucraina il vero banco di prova di Elly Schlein, da pochi giorni al timone del Partito democratico. Sarà l’Ucraina sia perché la politica estera non è più il fanalino di coda nei convogli romani del potere, sia perché la guerra scatenata da Vladimir Putin è troppo dirompente per il futuro dell’intera Europa e assai dirimente per gli assetti interni delle forze politiche dei Paesi democratici.
Alle corte. Se la nuova leadership del Pd dovesse confermare, sia pure con qualche sfumatura, la linea di Enrico Letta, tutta protesa a sostenere la resistenza di Kiev, nulla quaestio. Non si manifesterebbero propositi scissionistici nei dintorni del Nazareno, tanto meno si assisterebbe a un susseguirsi di recriminazioni e lacerazioni a getto continuo. Se, invece, la Schlein dovesse correggere il tiro, introducendo elementi di discontinuità, di ripensamento nella posizione del Pd sul conflitto russo-ucraino, la trama potrebbe cambiare traccia, e al distacco dal Pd comunicato dall’ex ministro Giuseppe Fioroni potrebbe seguire il divorzio da parte di vasti settori della corrente riformista del partito, corrente giornalisticamente definita come (ex) renziana.
I più assicurano che la neo-leader non modificherà nulla del lascito di Letta su politica estera e Ucraina e che, di conseguenza, tutte le previsioni pessimistiche sulla tenuta del Pd verranno smentite alla prova dei fatti. È probabile che andrà così e che Schlein vorrà dare filo da torcere a Giorgia Meloni su ogni punto e su ogni virgola dei dossier programmatici di Palazzo Chigi, fatta eccezione, appunto, per l’Ucraina. Se così fosse, si verificherebbe uno scenario (positivo) più insolito della neve in agosto: le due leader di maggioranza e opposizione si ritroverebbero d’accordo sulla questione estera più spinosa di questo secolo, viceversa i loro rispettivi alleati si ritroverebbero accomunati da distinguo e perplessità sui prossimi aiuti militari da fornire a Volodymyr Zelensky. In ogni caso, se davvero così fosse, se cioè le due leader di maggioranza e opposizione votassero, come è avvenuto finora, gli stessi provvedimenti pro-Ucraina, il sistema Italia avrebbe realizzato un significativo progresso, visto che nelle democrazie mature si votano all’unisono le misure eccezionali che attengono all’avvenire di un Paese e delle sue coassiali alleanze internazionali.
E, però, più passano i giorni, più si allarga il pissipissibaobao dell’indifferenza, se non dell’insofferenza, nei confronti del presidente ucraino, quasi che fosse colpa sua il perdurare di una guerra dichiarata da altri. Peggio ancora, si tende a mettere sullo stesso piano le ragioni dell’aggredito e le pretese dell’aggressore, il che contribuisce a rendere più coriaceo il primo e più tracotante il secondo. Con buona pace non già dell’avvio di un processo di pace, ma della più semplice firma di uno straccio di tregua.
L’Italia non può permettersi di sbandare, o di titubare, sul problema ucraino. Non può permettersi neppure di bizantineggiare allo scopo di guadagnare tempo. Il costo in termini di vite umane, e di distruzioni infrastrutturali in Ucraina, è così pesante che solo uno spirito cinico e anaffettivo potrebbe ignorarlo, o trascurarlo, senza avvertire alcun senso di colpa.
Le democrazie, con tutti i partiti che le compongono, mai come adesso devono fare squadra e resistere, dal momento che è in ballo il loro destino. Sulla carta loro, le democrazie, partono svantaggiate perché non si possono consentire il lusso di molestare nessuno mentre i capi dei regimi dispotici spesso dànno la sensazione di andare in orgasmo quando fanno soffrire vicini di casa e popolazione interna. Ma questo svantaggio dei sistemi liberi nei momenti più drammatici può rivelarsi un vantaggio. Accade quando scatta la mobilitazione democratica collettiva contro gli assolutismi.
Sarebbe il caso di ripassare le pagine di un pensatore italiano inspiegabilmente dimenticato: Guglielmo Ferrero (1871-1942), un liberale che pagò duramente la sua avversione al fascismo. Ferrero ha insegnato che il primo bene dell’umanità è la liberazione della paura e che i buoni governi sono quelli che non hanno paura e non ne incutono nei loro cittadini.
Ora. Se la paura è il principale discrimine tra una società libera e una società schiavizzata/terrorizzata, provate ad esaminare la condizione dei due duellanti nell’Europa orientale. In Russia l’opinione pubblica ha paura del tiranno e il tiranno ha paura della gente, tanto è vero che la tiene al guinzaglio per impedire sul nascere ogni tentativo di ribellione al di lui strapotere. In Ucraina la popolazione non ha paura del presidente, anzi è quasi tutta al suo fianco, e il presidente non ha paura della sua gente, che si dimostra addirittura più convinta di lui nella lotta contro l’invasore. Una motivazione e un orgoglio che, finora, sono riusciti a rintuzzare gli attacchi di un nemico palesemente più potente.
La sinistra è nata storicamente per difendere la causa dei più deboli. E poi. Le stesse leggi nazionali e sovranazionali si scrivono per proteggere i deboli dalle incursioni dei forti. Quindi: ai blocchi di partenza, chi risulta più forte tra Russia e Ucraina, chi agisce con la ferocia di un leone? Chi desta più paura a casa propria e nelle case degli altri? Solo qualche sofista potrebbe cercare di ribaltare la verità della storia e l’obiettività dei fatti.
Conclusione. Una sinistra che voglia riscoprire le radici ideali e culturali della sua storia, fondate nella difesa dei deboli, non può esitare un nanosecondo nello schierarsi ancora a sostegno dell’Ucraina. È l’Ucraina la preda, la vittima, la protagonista debole della tragedia in corso. Come si potrebbe non tenerne conto?