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Silicon Valley Bank, verso una nuova crisi 2008-2009?

Il crollo lampo della banca con sede a Santa Clara lascia indizi che fanno temere un nuovo disastro finanziario-economico globale. Cosa fare? Analogie e lezioni (imparate) secondo l’economista Giuseppe Pennisi

A febbraio era in 20° posizione nella lista annuale delle migliori banche d’America stilata da Forbes, e nemmeno tre giorni fa se ne vantava sui suoi canali social. A marzo è la prima banca dell’anno assicurata dalla Fdic, l’agenzia del governo degli Stati Uniti di assicurazione dei depositi federali, a fallire. È un crollo lampo quello della Silicon Valley Bank, la banca con sede a Santa Clara e 17 filiali in California e Massachusetts, specializzata in prestiti in startup tecnologiche e venture capital e che a fine 2022 aveva circa 209 miliardi di dollari di attività totali e circa 175,4 miliardi di depositi totali.

Su questa testata, il 14 gennaio 2023 avevamo avvertito che una minaccia stava per arrivare dal debito pubblico americano ed in particolare dalla difficoltà tra Congresso e Casa Bianca di trovare un accordo tra quello che dovesse essere il suo livello ottimale. Il 7 febbraio avevamo avvisato che pareva sul punto di esplodere il debito dei Paesi in via di sviluppo, come negli Anni ’80, quando l’ex Presidente del Consiglio italiano Bettino Craxi venne invitato dall’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite a fare una ricognizione e proporre soluzioni (che vennero approvate all’unanimità dall’Assemblea Generale dell’Onu). C’erano cenni che si sarebbe potuta una crisi finanziaria con vari punti di analogia con quella del 2008-2009, originando, però, non dal mondo confuso e disordinato dei mutui immobiliari (come allora) ma da quello del venture capital che già all’inizio del secolo aveva prima inebriato poi fatto tremare le piazze.

Alcune caratteristiche nel disastro che ha travolto la Silicon Valley Bank sono simili a quelle del 2008-2009, tuttavia, l’analogia è soprattutto con i fondi “sovrani” altamente speculativi (quali un paio che operano in cripto valute da piazze come Singapore) e che hanno lavorato con successo quando i tassi d’interesse erano molto bassi (o nulli) e che non hanno resistito all’incremento del costo del denaro. È importante sottolinearlo per vedere l’interazione tra la politica monetaria generale (particolarmente in una fase in cui si delineano altri aumenti del costo del denaro in un momento in cui l’inflazione non sembra ridursi senza restrizioni da parte dell’offerta di moneta) e le misure specifiche che è fattibile attuare.

Chi ha vissuto negli Usa alla fine degli Anni ’80 del secolo scorso ha vivo il ricordo della recessione che le autorità monetarie dovettero allora promuovere per calmierare l’inflazione e non vuole ripeterne l’esperienza, nonostante l’economia Usa (in particolare il mercato del lavoro) sia molto resiliente e continui a crescere.

Cosa fare? L’Economist di Londra propone di scoraggiare le “nove balene”  del venture capital, ricetta semplice da proporsi ma non certo attuarsi, in quanto sono necessarie misure specifiche nei confronti di cetacei molto differenti. Una possibilità sarebbe quella di far sì che i capitalisti di ventura pongano l’accento su aziende più mature – anche se necessariamente meno innovative di quelle a cui si sono rivolte nel recente passato. Questa ricetta funzionerà, tuttavia, nel medio termine, non nel breve, quando il differenziale del costo del denaro sarà diminuito.

Occorre temere una nuova crisi come quella del 2008-2009 (e l’altra, successiva, del 2011-2012 quando “saltarono” Paesi come la Grecia)?. Credo sia prematuro anticiparlo anche e soprattutto perché negli ultimi vent’anni abbiamo tutti imparato molto.

Stare in guardia, però, non fa male.

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