Colloquio con Rachel Rizzo, senior fellow allo Europe Center dell’Atlantic Council, sui principali temi che riguardano Europa e Stati Uniti: l’invasione russa dell’Ucraina, l’Inflation reduction act e i sussidi all’industria verde, il nuovo governo italiano, la nuova postura internazionale della Germania
Rachel Rizzo, senior fellow allo Europe Center dell’Atlantic Council, è stata a Roma per una serie di incontri istituzionali, e durante una visita alla redazione di Formiche.net le abbiamo fatto qualche domanda sui temi principali tra Stati Uniti ed Europa, sulla profondità della svolta tedesca in materia di Difesa e sulle tensioni legate all’Inflation reduction act.
Partiamo dai rapporti transatlantici. Dopo anni in altalena, negli ultimi due anni sono cambiati, si sono rafforzati: alcuni sondaggi condotti in Italia raccontano un Paese che dall’invasione russa dell’Ucraina ha più fiducia nel rapporto con gli Stati Uniti e molta meno nei confronti di Russia e Cina. A che punto siamo?
Penso che per capire a che punto siamo ora si debba guardare all’elezione di Joe Biden: per lui riparare il rapporto transatlantico è stato un aspetto chiave. Basta guardare le persone che ha coinvolto fin da subito nella sua amministrazione. Pro-atlantisti, professionisti che a lungo hanno fatto parte del settore, sostenitori dell’Ue e della Nato.
L’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022 ha preso tutti di sorpresa, Stati Uniti inclusi. È importante ricordare che l’amministrazione Biden non aveva in programma di concentrarsi sulla Russia, ma volgeva lo sguardo verso la regione Indo Pacifica, considerando la Cina come la minaccia emergente.
Quando si è capito che questa guerra non sarebbe stata rapida?
L’illusione è durata poco. Il governo americano ha capito che dovevamo sostenere l’Ucraina e coinvolgere gli europei in questo sforzo, assumendo un ruolo di guida anche davanti a comprensibili resistenze da parte degli alleati. Con sostegni militari, economici, ma anche mantenendo salda l’unità dell’Occidente con un ampio regime sanzionatorio. Danneggia anche i Paesi che lo adottano? Sì, ma è stato subito chiaro che rispondere alla Russia è cruciale e che dobbiamo combattere l’idea che i confini si modificano con la forza.
Come vede la transizione dal governo Draghi – che è stato uno degli artefici principali di questo riavvicinamento con l’amministrazione americana – al governo Meloni, che ha detto di volersi mantenere sulla stessa rotta? Negli Stati Uniti questo impegno è stato percepito?
Mario Draghi è visto dagli Usa come un baluardo di stabilità in un sistema politico volatile come quello italiano. Penso che la transizione tra lui e Meloni destasse preoccupazioni, in particolar modo in merito a questioni di politica interna e sociale vista la differenza ideologica tra un’amministrazione democratica e un governo conservatore. In particolare si temeva che un’ondata populista di destra, che abbiamo osservato in Ungheria, Francia e Polonia, potesse prendere il sopravvento anche in Italia. Ma Giorgia Meloni ha sin da subito mandato messaggi molto europeisti, in favore della Nato, dell’Ucraina, ed è stata una piacevole sorpresa per tutti noi. La stampa, in particolare in Italia, aveva descritto il governo in arrivo come più pericoloso di quanto non fosse in realtà.
A proposito di Europa e di come sia cambiata nell’ultimo anno, lei segue da vicino quello che succede in Germania, dove ha vissuto. Nello scorso anno il Paese ha attraversato molti cambiamenti, il cancelliere Scholz si è impegnato ad adottare un nuovo assetto militare e strategico, come non si vedeva da decenni, dato che la Germania dalla Seconda guerra mondiale in poi ha cercato di apparire come una potenza non minacciosa. Scholz sta rispettando questa promessa di diventare un attore protagonista sul piano internazionale, dopo esserlo stato solo sul piano commerciale?
Se pensiamo al discorso al Bundestag del cancelliere Scholz nei giorni successivi all’invasione russa, è uno spartiacque nella politica estera tedesca. Quando ha parlato di Zeitenwende e quindi di una svolta storica, europei e americani hanno percepito questo desiderio di avere un nuovo ruolo globale. Non credo che all’inizio del suo mandato intendesse impegnarsi su quel fronte, ma c’è arrivato in poco tempo. Alla Germania penso vadano davvero riconosciuti i passi che ha fatto nell’ultimo anno. Non si tratta solo di spendere di più nella Difesa, nonostante sia di sicuro importante revitalizzare il Bundeswehr, storicamente sottofinanziato. Anche sulla riduzione della dipendenza dall’energia russa hanno fatto un ottimo lavoro.
Cosa manca ancora?
Sul tavolo c’è molto di più delle questioni militare ed energetica, si tratta di cambiare dalle fondamenta la mentalità tedesca, che è arroccata sul modo in cui la Germania vede se stessa come player sul piano internazionale. Un passaggio molto più difficile e penso che la strada sia ancora lunga, non può succedere da un giorno all’altro, né nel giro di un paio d’anni. Ma credo che Scholz abbia gettato le fondamenta per quel ruolo e perciò merita un riconoscimento.
A breve sarà pubblicata la nuova strategia tedesca sulla Cina, di cui alcuni dettagli sono trapelati negli scorsi mesi e facevano intuire un approccio più rigido che in passato.
Andrà letta con attenzione. Molte persone sono preoccupate che la Germania con la Cina stia per finire nella stessa trappola economica in cui era caduta con la Russia in termini di dipendenza energetica. C’è anche una strategia di sicurezza nazionale, la prima di sempre, che sarà pubblicata nelle prossime settimane. Sarà interessante vedere come la Germania definirà le proprie priorità di sicurezza nazionale per la prima volta e come questo sarà percepito in Europa e negli Usa.
Il modello tedesco del passato, che si basava sull’idea che i legami commerciali possano essere più forti delle rivalità strategiche, di sicuro non ha funzionato con Mosca e sembra non funzionare con Pechino. Ma la comunità imprenditoriale tedesca è pronta a svincolarsi dalla Cina (o quantomeno a non investire in modo così massiccio su questo rapporto) come invece è pronta a fare la classe politica e militare?
È sempre difficile portare le aziende verso posizioni che potrebbero comportare un calo consistente del fatturato. Nel suo viaggio in Cina a fine 2022 Scholz ha viaggiato insieme a un gruppo di imprenditori e manager, il che dimostra quanto sia importante questo rapporto per l’economia tedesca. Un tempo si diceva “Se va bene a General Motors, va bene anche agli Stati Uniti” e questo teorema si potrebbe applicare oggi per un’azienda come Volkswagen, applicato alla Germania. Il problema è che Volkswagen vede ancora la Cina come un importante mercato estero e non credo che questo cambierà presto.
La domanda resta: come si fa ad avere relazioni d’affari con la Cina assicurandosi allo stesso tempo che la sicurezza nazionale non venga compromessa?
Gli Stati Uniti si stanno interrogando proprio sulla stessa questione. Biden è stato molto “falco” sulla Cina, ha dato continuità a molte scelte dell’era Trump. C’è la sensazione che non si voglia arrivare ad una separazione completa ma allo stesso tempo dobbiamo assicurarci che la nostra sicurezza nazionale venga prima di tutto quando pensiamo al nostro rapporto con la Cina. Non so se la Germania sia già a questo punto ma penso che sappiano di doversi occupare di un aspetto diventato centrale. Anche se implementare queste politiche è molto più difficile che parlarne.
Un’ultima questione importante è l’Inflation Reduction Act (Ira). Lei ha menzionato Volkswagen, nelle scorse settimane i ministri economici di Germania e Francia sono andati a Washington per parlare di Ira e sussidi, probabilmente avendo in mente l’interesse di Volkswagen (e Renault) più che l’interesse europeo. Ma l’interesse europeo non è chiarissimo, non essendoci una posizione comune, e immagino che anche negli Usa siano abbastanza confusi quando ci vedono discutere tra noi. Gli Usa hanno fretta di mettere in carreggiata la transizione energetica e di correre più veloci della Cina, come conciliare queste posizioni?
Intanto credo sia importante capire il percorso dell’Ira, costruito a partire dal Build Back Better Act, ostacolato dai senatori Joe Manchin e Kyrsten Sinema, e cosa è stato partorito dopo mesi di negoziati molto lunghi. Mi faccio una domanda, ed è in un certo senso pessimistica: chi ha progettato questa legge ha in qualche modo dato per scontato che gli Usa avessero un accordo di libero scambio con l’Ue? Perché questa è l’impressione. D’altra parte, gli europei esagerano nel lamentarsi del piano, avendo spinto per anni perché gli Stati Uniti riconoscessero l’importanza del cambiamento climatico e della sostenibilità. Da noi sono argomenti partisan con una netta divisione tra repubblicani e democratici, mentre in Europa qualcosa come il 93% degli intervistati vede il cambiamento climatico non solo come un fatto ma come una minaccia seria, numeri che mai si vedrebbero negli Stati Uniti.
Penso quindi che l’aver adottato una normativa di riferimento sul clima sia un fatto molto importante, che dobbiamo concentrarci sugli aspetti positivi e lavorare insieme dove possibile. Gli aspetti negativi riguardano in particolare i sussidi per le auto elettriche, ma sono una piccola porzione di una normativa molto più ampia. Concentrarsi su questo caso specifico non aiuta sul lungo periodo.