C’è il rischio che le questioni legali finiscano con l’avvantaggiare l’ex presidente che potrebbe continuare a dipingersi come la vittima prediletta del Deep State e potrà comunque continuare la sua campagna elettorale
La settimana scorsa l’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato il suo imminente arresto da parte del procuratore distrettuale di Manhattan, Alvin Bragg. A seguire, sono stati in molti, e non solo tra i sostenitori dell’ex presidente, a lamentare un abuso di potere volto al tentativo di screditare Trump utilizzando la Legge a fini politici. Tra questi spicca il nome del penalista, ed ex docente di diritto costituzionale di Harvard, Alan Dershowitz, secondo il quale questa di Bragg non è l’unica manovra giuridica orchestrata in questo periodo per danneggiare le ambizioni elettorali dell’ex presidente, ma tra tutte è senz’altro la più debole. Secondo questa chiave di lettura, il procuratore distrettuale Bragg, invece di dedicarsi all’amministrazione della giustizia in una città i cui tassi di criminalità sono in forte crescita, nel riesumare una questione vecchia di sette anni, starebbe stravolgendo l legge con l’obiettivo di ostacolare il ritorno di Trump alla Casa Bianca. Ritorno che sembra del tutto possibile, almeno da quanto si ricava dai sondaggi d’opinione eseguiti su scala nazionale. Secondo l’ultimo sondaggio Reuters/Ipsos, Trump ha il 44 per cento di sostegno tra i repubblicani e gli indipendenti, con il suo principale rivale, il governatore della Florida, Ron DeSantis, che non supera il 30 per cento. Numeri questi confermati, quasi esattamente, anche dalla media dei principali sondaggi nazionali redatta periodicamente da Real Clear Politics.
Il sospetto che Bragg stia perseguendo un’agenda politica è alimentato da una serie di questioni procedurali tutt’altro che irrilevanti, prima tra tutte il fatto che il suo predecessore si sia a suo tempo rifiutato di perseguire questo stesso caso, in quanto a suo avviso privo di risvolti penali. Tantomeno Bragg sembra dare importanza a dei termini di prescrizione già scaduti da cinque anni e la cui proroga è prevista solo in caso d’irreperibilità dell’indiziato, cosa alquanto difficile da prendere anche solo in considerazione trattandosi dell’allora inquilino della Casa Bianca. Inoltre, il principale testimone di Bragg, Michael Cohen, non è certo un campione di attendibilità, essendosi in passato dichiarato colpevole di aver evaso le tasse e di aver mentito a diverse istituzioni federali, tra le quali le commissioni Intelligence di Camera e Senato.
In ogni caso non è ben chiaro di cosa Trump potrebbe essere davvero accusato. A quanto sembra, l’ex presidente potrebbe finire in manette per aver violato le disposizioni di legge che regolano i meccanismi di finanziamento elettorali nel comprare con 130.000 dei suoi dollari il silenzio di tale Stormy Daniels, in merito a una presunta notte di sesso consensuale che i due avrebbero avuto nel 2006, quando Trump era un maturo uomo d’affari e Daniels una stripper ventisettenne. Da notare che simili accordi sono legalmente consentiti. Il silenzio nei confronti di un’attività lecita condizionato al pagamento di una somma in denaro non è contro la legge. Il Non-Disclosure Agreement non solo è un contratto lecito, ma è anche una pratica diffusa in molti e diversi settori della società statunitense. Se così stanno davvero le cose, Bragg non sembra tenere in considerazione il fatto che la legge non attribuisce alcuna valenza criminale a un Non-Disclosure Agreement riconducibile principalmente a ragioni personali oppure a ragioni commerciali. Ne consegue che, per poter giustamente incriminare Trump, l’accusa deve dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio che con questo pagamento l’ex presidente ha inteso condizionare a suo favore l’andamento della campagna elettorale invece di proteggere la sua privacy e con essa il futuro della sua famiglia. Ma quando pure Bragg riesca a dimostrare che il Non-Disclosure Agreement sia stato il prodotto di un intento criminale, sfugge come un procuratore distrettuale possa estendere la sua giurisdizione su un crimine di valenza federale, perché nel 2016 la campagna elettorale in cui Trump era impegnato era volta al tentativo di conquistare la presidenza degli Stati Uniti e non, per dire, il governatorato dello Stato di New York. E questo mentre le competenti autorità federali hanno a suo tempo stabilito che a proposito di questa vicenda non c’erano semplicemente gli elementi per parlare di crimine.
Nonostante tutto questo, la probabilità che Trump finisca con l’essere davvero arrestato è tutt’altro che trascurabile, soprattutto perché nell’ambito di quel Grand Jury incaricato di deliberare in merito non è previsto spazio alcuno per la difesa. Presunte prove e testimonianze a carico sono sottoposte all’attenzione dei giurati senza alcun dibattito.
L’intera questione sembra assumere un carattere ancora più paradossale se si pensa che molto probabilmente Trump potrebbe anche finire con l’avvantaggiarsi delle accuse a lui mosse, confermandosi come vittima prediletta del Deep State, perché potrà comunque continuare la sua campagna elettorale. Questo non solo perché negli Stati Uniti vige l’assoluta presunzione d’innocenza, ma anche perché l’articolo due della Costituzione specifica, in un linguaggio più che chiaro, come le uniche qualifiche richieste per ricoprire la carica di presidente degli Stati Uniti siano la cittadinanza naturale, i trentacinque anni d’età e la residenza da almeno quattordici. Inoltre, la Corte Suprema nel 1969 ha chiarito come le qualifiche costituzionalmente prescritte per ricoprire cariche federali non possono essere modificate, e neppure integrate, da interventi legislativi del Congresso oppure degli Stati.
Trump potrebbe quindi assumere l’incarico di presidente degli Stati Uniti anche nel caso in cui fosse condannato a una pena detentiva. Tre i precedenti da ultimo ricordati a questo proposito. Il primo è del 1798, quando Matthew Lyon, uno dei pochi membri della Camera che rappresentò contemporaneamente due Stati, per la precisione il Vermont e il Kentucky, fu rieletto nonostante fosse stato condannato per aver violato il Sedition Act dello stesso anno. Il secondo risale al 1920, quanto Eugene Debs, il fondatore del Partito socialista americano, si candidò alla presidenza mentre scontava i 10 anni di prigione ai quali era stato condannato in base all’Espionage Act del 1917 ripromettendosi inoltre di concedersi la grazia nel caso in cui fosse stato eletto. Il terzo è del 1992, quando Lyndon LaRouche si candidò alla Casa Bianca pur non avendo ancora finito di scontare i 15 anni di prigione cui era stato condannato nel 1988 per cospirazione, frode postale ed evasione fiscale.
In effetti, neanche quel quattordicesimo emendamento costituzionale che squalifica chiunque dall’occupare qualunque carica federale nel caso in cui tale persona abbia prima prestato il giuramento di sostenere la Costituzione e poi si sia impegnata in atti d’insurrezione contro la Costituzione stessa, sembra in grado di bloccare Trump. Anche nel caso in cui si arrivasse a determinare che quella del 6 gennaio del 2021 è stata davvero un’insurrezione e che Trump vi abbia attivamente partecipato, quest’ultimo potrebbe plausibilmente sostenere di essere esente dalle prescrizioni del quattordicesimo emendamento perché questo non si riferisce specificamente alla presidenza e non è auto-eseguibile. In altre parole, per la sua applicazione richiede un provvedimento di legge che appare del tutto improbabile, posto che la Camera fino alle elezioni generali del novembre del 2024 resterà senz’altro in mano repubblicana. Non solo, Trump potrebbe anche appellarsi al fatto che il Congresso, con un’amnistia promulgata nel 1872, ha revocato il divieto espresso dal quattordicesimo emendamento di ricoprire cariche federali a tutta una serie d’individui che si erano senz’altro macchiati del reato d’insurrezione, in quanto si erano schierati dalla parte degli Stati Confederati d’America.