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Che sia un 25 aprile di liberazione dal corporativismo di origine fascista

Forse può sembrare un approccio un po’ originale, rispetto a quelli consueti, ma la festa della Liberazione deve diventare presto la festa della liberazione dagli effetti portati dal fascismo, che perdurano molto di più di quanto l’opinione pubblica sembri avvertire nella società italiana. L’opinione di Luigi Tivelli

Non mi sembra importante associare la mia presa di posizione alle tante, anche ben più autorevoli, sul senso del 25 aprile e della festa della Liberazione che riguardano il cleavage fascismo/antifascismo.

Ma dalla festa della Liberazione voglio cogliere e cercare di declinare il senso del concetto di “Liberazione” in termini economico sociali. Pochi ricordano, purtroppo, in questo Paese senza memoria storica, che uno dei gesti politici più importanti nel primissimo dopoguerra fu la liberalizzazione degli scambi, varata nel 1947 dal presidente del Consiglio De Gasperi in accordo col ministro del commercio estero di allora, Ugo La Malfa. Di vera “liberazione”, infatti, si trattava soprattutto perché con questo gesto si liberò il Paese da quella asfissiante autarchia in cui era stato imprigionato dal fascismo.

Senza quella apertura agli scambi internazionali, che che costò ad Ugo La Malfa anche dure polemiche da parte della Confindustria di allora, il Paese non avrebbe colto quelle grandi opportunità derivanti dal commercio internazionale e dall’abbattimento delle barriere che è stato un fattore trainante per lo sviluppo degli anni successivi, per il miracolo economico dei primi anni 60 e per la futura proiezione italiana sui mercati internazionali. Quindi quel ridicolo e obsoleto architrave su cui si reggeva il fascismo fu giustamente e con grande tempismo e coraggio abbattuto.

Non è mai stato, purtroppo, davvero abbattuto, invece, l’altro architrave su cui si reggeva il modello economico e sociale del fascismo, per quanto riguarda gli assetti interni: quello del corporativismo e delle conseguenti bardature corporative che bloccavano e bloccano il serio funzionamento dell’economia e della società che in larga parte purtroppo perdurano. Sull’economia e sulla società italiana pesano infatti oggi troppi monopoli, oligopoli, bardature corporative. Troppe sono, ad esempio, le imprese o partecipare pubbliche, operanti sia a livello centrale che a livello locale, spesso in condizioni di monopolio o di oligopolio. Troppe sono ancora le chiusure di tanti ordini professionali che si presentano, invece, in forma ben più aperta e meno corporativa negli altri grandi paesi europei…

Troppo in ritardo è l’azione per le liberalizzazioni. Le pochissime (rispetto alle previsioni di legge) leggi annuali di liberalizzazioni sin qui adottate non hanno fino ad ora intaccato nulla dei tanti settori avulsi dalla concorrenza. Regolarmente già da vari anni, anche quando sostanzialmente era la sinistra a governare, non solo questi leggi di liberalizzazione erano e sono di portata molto limitata e da sempre trovavano un cammino lungo complesso e fatto di tanti ostacoli e sotto la pressione di tanti lobbies e corporazioni varie in Parlamento. Poi soprattutto sono l’occasione per il riemergere della difesa, spesso all’unisono da parte della classe politica (specie della destra), delle tante piccole corporazioni che infestano il Paese, vuoi che fossero i taxisti, vuoi che siano in questi anni i balneari.

Il presidente del Consiglio Meloni aveva in qualche modo rilanciato il tema del merito, ma non mi pare si vedano segnali concreti in direzione dell’introduzione di una sana meritocrazia. Meritocrazia e concorrenza sono infatti in qualche modo sorelle gemelle, perché non ci può essere l’una senza l’altra. Entrambe insieme sono il fondamentale ossigeno liberalizzatorio rispetto all’Italia delle piccole, grandi e medie corporazioni, delle troppe bardature burocratico-corporative. Sembra che qualche azione in questo senso, in riferimento all’introduzione progressiva di qualche forma di meritocrazia sia stata avviata dal ministro della pubblica amministrazione Paolo Zangrillo, ma il cammino per l’introduzione di una seria meritocrazia nella PA sarà certamente lungo e pieno di ostacoli. Praticamente niente si vede in quello che dovrebbe essere il campo di azione fondamentale per l’introduzione di serie forme di meritocrazia: quello della pubblica istruzione e dell’università. Luogo di affermazione da sempre della regola dell’ope legis, della regolarizzazione dei precari (come però avverrà probabilmente nei prossimi anni anche nella P. A.). Ma non si capisce come insegnanti scelti sulla base dei più svariati criteri possibili, tranne quelli del merito possano contribuire a diffondere tra gli studenti il valore del merito…

La liberazione dal fascismo è, quindi, sostanzialmente avvenuta per quanto concerne il fattore esterno, ovvero l’apertura delle frontiere del Paese, agli scambi internazionali, all’ossigeno liberalizzatore che può venire dal rapporto concorrenziale con gli altri Paesi. Festeggiare la liberazione oggi dovrebbe significare anche puntare alla liberazione di quel fattore interno, composto da bardature corporative e dai piccoli monopoli pubblico e privati, da quei “lacci e laccioli” che già Guido Carli aveva individuato e descritto da governatore della Banca d’Italia più di 40 anni fa. Bisogna quindi eliminare quelle bardature corporative che sono in larga parte un lascito del fascismo e di una già allora mal digerita e ancor più, successivamente cultura, mentalità e prassi corporativa.

L’Italia è ancora un po’ troppo, specie ma non solo negli ambienti vicini al settore pubblico, un Paese di cerchi magici, clan e corporazioni, tutti più chiusi di quanto possa sembrare. Solo l’ossigeno (o forse anche l’idrogeno, dato che oggi va tanto di moda…) portato dall’introduzione di sana meritocrazia e sana concorrenza possono mandare in porto finalmente la completa “liberazione” del nostro Paese. Forse può sembrare un approccio un po’ originale, rispetto a quelli consueti, ma la festa della Liberazione deve diventare presto la festa della liberazione da questi effetti portati dal fascismo, che perdurano molto di più di quanto l’opinione pubblica sembri avvertire nella società italiana.

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