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L’autarchia linguistica? No, grazie. Altrimenti l’Europa…

La mancanza di una parlata comune ha già rallentato il processo unitario. Il primato degli idiomi nazionali potrebbe assestare il colpo di grazia all’Ue. La riflessione di Giuseppe De Tomaso

Le culture politiche del Vecchio continente si dividono, da più di mezzo secolo, in due schieramenti. Il primo schieramento ritiene che si vada troppo a rilento verso l’obiettivo dell’Europa federale. Il secondo, invece, è convinto che si vada troppo in fretta verso il traguardo dell’Europa federale e che sia preferibile fermarsi alla tappa intermedia dell’Europa confederale, l’unica capace di preservare le identità dei singoli Stati.

Purtroppo la contrapposizione da parte di quest’ultima corrente di pensiero ha frenato non poco il cammino verso l’unità politica dell’Unione europea, anche perché il criterio, in vigore, dell’unanimità delle decisioni tra gli Stati ha fermato sul nascere qualsiasi decisivo scatto in direzione degli Stati Uniti d’Europa. Il voto a maggioranza quasi certamente avrebbe modificato lo scenario e la storia, con buona pace delle nazioni più gelose della propria sovranità, da loro venerata come la reliquia di un santo prodigo di miracoli. Ma quando gli spiriti più sinceramente europeisti tirano in ballo la necessità di votazioni a maggioranza tra i 27 soci del club Ue, il gruppuscolo dei governi contrari si mette di traverso bloccando qualsiasi progetto in senso federale.

Ma il potere di interdizione degli Dtati sovranisti avrebbe avuto modo di esprimere tutta la sua efficacia se i popoli del Vecchio continente avessero avuto in comune la lingua, oltre alla moneta? Molto probabilmente no. Molto probabilmente anche le nazioni più ostili all’integrazione costituzionale definitiva avrebbero deposto le armi a difesa dell’autarchia linguistica. Infatti, tra i popoli che parlano la medesima lingua è più facile intendersi e capirsi. Tra i popoli accomunati dal medesimo vocabolario è più semplice abbassare le barriere delle incomprensioni e dei pregiudizi. Di conseguenza, se il viaggio dell’Unione europea verso l’unità politica ora sta procedendo – per colpa del freno a mano azionato dai sovranisti dell’Est – alla velocità di un’utilitaria anni Cinquanta, molto dipende dall’esorbitante numero di lingue (24) che s’incrociano e si sovrappongono da Cipro fino alla Norvegia. La stessa vicenda nazionale italiana è illuminante al riguardo: la vera, sostanziale unità dello Stivale si realizzò solo grazie ai giornali, alla radio e alla televisione che, informando ed esprimendosi in italiano, misero fine alla babele di idiomi e dialetti che rendevano complicate persino le comunicazioni tra villaggi confinanti, figuriamoci tra regioni distanti centinaia di chilometri. Ergo: la lingua comune è insostituibile come il pane se si vuole davvero realizzare l’unificazione dei popoli, nel nostro caso la costruzione della casa federale europea.

Ecco perché sorprendono e, a volte, sconcertano alcune sortite strapaesane tipo la proposta di multare salatamente chi utilizza termini stranieri. Né attenua lo sconcerto la precisazione tesa a voler circoscrivere, soltanto agli atti della Pubblica amministrazione, l’altolà alle parole forestiere. Uno perché di alcuni vocaboli non esiste un’esatta, esauriente traduzione in italiano. Due perché molti vocaboli inglesi sono d’uso corrente anche nella penisola, risultando sovente più diffusi degli stessi corrispettivi in italiano. Tre, perché specie in economia, la lingua dei mercati resta l’inglese: sarebbe alquanto bizzarro, e nei fatti anacronistico e autolesionistico, introdurre o ripristinare, sia pure solo in alcuni documenti statali, una terminologia nazionale che risulterebbe, giocoforza, metà nostalgica e metà umoristica. Quattro, perché bisognerebbe procedere, nel lessico europeo, in senso contrario, ossia con il privilegiare la lingua più utilizzata nelle transazioni inter-personali, senza per questo prepensionare le parlate nazionali.

Certo, la Brexit non ha giovato alla causa dell’inglese quale lingua di riferimento in Europa. Ma mai come adesso la mobilità delle persone, in particolare dei giovani, in Europa, è cresciuta a ritmi forsennati, un fenomeno reso possibile dalla condivisione della lingua più adoperata al mondo. Che facciamo? Vogliamo mettere sabbia nell’ingranaggio comunitario? Vogliamo rendere più difficoltosi i contatti, gli spostamenti tra gli europei?

Se c’è una pecca nella pubblica istruzione italiana, la modesta diffusione della conoscenza dell’inglese è forse la più vistosa. Non a caso, il Belpaese figura all’ultimo posto in Europa nella conoscenza della lingua di William Shakespeare (1564-1616) e Winston Churchill (1874-1965). Tutto si dovrebbe fare a Roma tranne che aggravare questa lacuna. Oggi, in Italia, solo un giovane su cinque parla fluentemente in inglese. Gli adulti stanno messi molto peggio, basti pensare che il 40% degli italiani rivela di aver perso opportunità di lavoro a causa del loro deficit linguistico.

La parola identità possiede un indiscutibile appeal. Ma quando l’identità diviene un ostacolo per l’integrazione di una comunità, per la facilitazione dei contatti umani, culturali e commerciali, allora è meglio evitare di rimpiangerla e di riproporla in ogni circostanza. Molto meglio immaginarla nel ricettacolo degli oggetti smarriti e farsene una ragione.

Ogni processo socio-politico unitario ha bisogno di un’unità linguistica. Se prima Dante Alighieri (1265-1321) e, parecchi secoli dopo, Alessandro Manzoni (1785-1873) misero il loro genio in due capolavori letterari, lo fecero con l’obiettivo di dotare l’Italia di una lingua comune che superasse gli innumerevoli dialetti locali e favorisse l’integrazione nazionale. Lo stesso schema e la stessa operazione meriterebbero di essere riproposti oggi in Europa, se davvero l’unità del Vecchio continente viene considerata una meta assoluta da raggiungere il più presto possibile.

Peraltro, sono gli stessi europei ad aver intrapreso da tempo la strada della condivisione e facilitazione linguistica. Lasciamo decidere a loro. Lasciamo fare a loro. Lasciamo perdere l’autarchia lessicale, che sfascerebbe persino la timida Europa di oggi. La politica fa già molti danni altrove. Meglio evitare di fare peggio anche nella materia più delicata per una democrazia: la comunicazione.

 

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