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Il Ponte sullo Stretto e la China Policy che serve all’Italia. Scrive Rizzi (Ecfr)

Di Alberto Rizzi

Il ministro Salvini ha stoppato le mire cinesi sul maxi-progetto. Ma, anche in vista della decisione sul rinnovo della Via della Seta, serve definire una posizione sui rapporti futuri con Pechino. Il commento di Alberto Rizzi, pan-European fellow dello European Council on Foreign Relations a Roma

Nei giorni scorsi, Pei Minshan, deputy general manager di China Communications Construction Company (Cccc) ha dichiarato al Sole 24 Ore che il colosso cinese è interessato alla costruzione del Ponte di Messina. Le sue parole hanno riaperto con prepotenza la questione delle relazioni economiche fra Italia e Cina e il tema del ruolo degli investimenti di Pechino nelle infrastrutture critiche in Europa.

Cccc, del resto, non è un’impresa cinese qualunque, ma un colosso pubblico infrastrutturale specializzato proprio nella costruzione di ponti e opere portuali. Con un giro d’affari di oltre 130 miliardi di dollari nel 2021 e più di 220.000 dipendenti, è uno dei principali attori coinvolti nella Belt and Road Initiative (meglio nota in Italia come Nuova Via della Seta), l’iniziativa infrastrutturale promossa da Pechino e diventata sempre più strumento di proiezione geoeconomica, anche in Europa. Cccc non è nuova a operazioni nella penisola: nel 2019, sull’onda dell’entusiasmo sinofilo a seguito dell’ingresso italiano nella Nuova Via della Seta, l’azienda siglò un accordo di cooperazione con l’Autorità di Sistema Portuale di Genova, secondo porto italiano per traffico di merci dopo Trieste.

L’interesse cinese verso i porti italiani ha una lunga storia: coinvolge anche Trieste e, più recentemente, l’area di Taranto, centro nevralgico non solo dal punto di vista commerciale, ma anche della sicurezza con gli asset Nato e quelli europei della missione Irini – come indicato da Formiche.net. Alla luce del conflitto in Ucraina il tema delle infrastrutture è sempre più delicato per l’Europa, e questo vale sia per la dimensione interna che quella esterna. Con l’iniziativa Global Gateway dell’Unione europea – di cui il “Piano Mattei” auspicato dal governo potrebbe tranquillamente rappresentare la componente italiana – che mira a contrastare gli investimenti infrastrutturali cinesi nelle economie emergenti, non è pensabile che nel continente europeo si lasci invece ampio spazio di manovra ad attori legati al governo di Pechino.

L’Italia stretta fra Bruxelles, il Dragone e lo Zio Sam

Matteo Salvini, vicepresidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture, si è affrettato a evidenziare, rispondendo all’interessamento cinese, che il punto di partenza rimane il progetto del 2012 già assegnato a Eurolink, società presieduta dal gigante italiano WeBuild (ex Impregilo). La chiusura all’interesse cinese da parte del ministro è stata repentina, anche per prevenire dubbi statunitensi sulla dimensione problematica di una partecipazione cinese a un progetto infrastrutturale critico.

Cccc, infatti, è già finita sotto i riflettori occidentali: nel 2011 venne esclusa per 6 anni da tutti i progetti infrastrutturali terrestri finanziati dalla Banca mondiale a seguito di pratiche scorrette nelle Filippine legate agli appalti. Nel 2020, l’azienda venne poi inserita dall’amministrazione Trump nella blacklist delle entità sanzionate dal dipartimento del Commercio degli Stati Uniti a causa della sua attività nel Mar Cinese Meridionale. Il colosso infrastrutturale ha infatti partecipato alla costruzione di isole artificiali nell’area di mare che Pechino rivendica come propria (secondo la Nine-dash Line), una rivendicazione fortemente respinta invece da Washington e dagli altri Paesi del Pacifico.

Se Ponte sullo Stretto sarà – chi scrive continua ad avere dei dubbi, non fosse altro che in quasi 30 anni di vita non è certo la prima volta che sente parlare di lavori già pronti a partire – con l’eventuale adeguamento del progetto precedente, l’azienda cinese dovrebbe restarne esclusa. Del resto, includere un gigante della Belt and Road Initiative, sanzionato dagli Stati Uniti, in un’infrastruttura critica avrebbe fortemente indebolito le credenziali euro-atlantiche dell’esecutivo, minando il principale pilastro della sua reputazione estera.

Coinvolgere entità di quello che è ormai a tutti gli effetti un rivale sistemico dell’Unione europea e un avversario sul piano geoeconomico nella costruzione di interconnessioni energetiche, digitali e dei trasporti non appare più una strada percorribile, ancor meno alla luce del discorso di pochi giorni fa di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, sulla necessità di ridurre i rischi nei rapporti economici con la Cina. Non ha chiuso la porta a Pechino – auspicando comunque una solida, anche se ribilanciata, cooperazione dove possibile – ma ha insistito sui pericoli per la sicurezza derivanti dagli investimenti cinesi in settori strategici. Non un de-coupling, ma sicuramente un de-risking che include, oltre ad ampi settori industriali, alla tecnologia green e al digitale, anche il comparto infrastrutturale.

Proprio la presidente della Commissione è in visita in Cina con il presidente francese Emmanuel Macron per discutere delle posizioni cinesi e del supporto di Pechino a Mosca nella guerra in Ucraina, ma anche per stabilire un nuovo piano di rapporti economici, meno sbilanciato. Il coinvolgimento di von der Leyen mostra come Macron non abbia voluto evitare di ripetere l’errore del cancelliere tedesco Olaf Scholz, recatosi a Pechino in solitaria, attirandosi molte critiche dagli altri Paesi europei che accusavano la Germania di voler stabilire una propria politica verso la Cina autonoma rispetto al contesto comunitario.

Una China Policy per Roma

La grande assente di questo discorso è proprio l’Italia, unica delle tre grandi economie dell’Eurozona a non aver ancora previsto una visita di Stato in Cina né definito una propria posizione strategica sui rapporti futuri con Pechino. Se durante la campagna elettorale Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, era stata molto dura sulla Cina, i toni si sono ammorbiditi una volta insediatasi a Palazzo Chigi e il bilaterale con il presidente cinese Xi Jinping – a margine del G20 dello scorso novembre – si era comunque svolto in un clima di cordialità.

L’esecutivo italiano ha mostrato di mantenere alta l’attenzione sul fronte dei rischi, utilizzando a marzo il golden power per limitare la cessione di software a un’azienda di robotica cinese legata al governo. Ma si pone con urgenza sempre maggiore il tema della politica verso la Cina nel suo complesso. Se la Germania ha preferito andare per la sua strada, mentre la Francia vuole giocare – almeno in apparenza – di squadra, l’Italia è fino a ora rimasta sostanzialmente al palo. Considerato il quadro geopolitico non è più rimandabile l’adozione di una posiziona governativa sui rapporti economici (e non solo) con la Cina. Un passo non semplice, anche a causa delle diverse anime dell’esecutivo: se Fratelli d’Italia è sempre stato critico su Pechino, Forza Italia ha quantomeno espresso la volontà di coinvolgere la Cina nella soluzione del conflitto in Ucraina, mentre la Lega alterna chiusure ad atteggiamenti più aperturisti. Non va del resto dimenticato come Salvini fosse vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno nel governo Conte I, quello che sottoscrisse la partecipazione italiana alla Nuova Via della Seta e che vedeva all’epoca nella Lega diversi fautori della vicinanza con Pechino.

Un accordo ora rappresenta invece il principale nodo da sciogliere: la scadenza è infatti nel marzo 2024 e il governo Meloni dovrà decidere se terminarlo o accettarne il rinnovo automatico. In tutta Europa la stagione sinofila si è abbondantemente conclusa ed è stata sostituita da venti contrari (il formato 17+1, lanciato per includere nella Belt and Road Initiative i Paesi dell’Europa centro-orientale, ha visto diverse defezioni ed è ormai sostanzialmente svuotato). Gli occhi delle diplomazie europee – e soprattutto di quella statunitense – sono quindi puntati su Roma, non senza una certa preoccupazione. L’Italia è chiamata ormai a una scelta di campo e a una riflessione sull’opportunità di mantenere un accordo che diventa sempre meno compatibile con lo scenario globale attuale, il quale non permette più la separazione della dimensione economica della politica estera da quella strategica.


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