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Cosa non convince della consultazione della Commissione europea sulla fair contribution

La consultazione pubblica dell’Ue per il futuro del settore della connettività e la contribuzione ai costi per lo sviluppo delle reti chiede il parere delle parti interessate su come garantire la tempestività degli investimenti necessari per la realizzazione delle infrastrutture. Ecco tutto ciò che manca nell’analisi di Augusto Preta

Da tempo annunciata, la Commissione europea ha lanciato lo scorso 23 Febbraio e per 12 settimane una consultazione sulla cosiddetta fair contribution o fair share, ovvero la contribuzione ai costi per lo sviluppo delle reti, all’interno delle iniziative sulla connettività e le sue infrastrutture.

L’obiettivo dichiarato è di capire come la crescente domanda di connettività – Meta (Facebook, Instagram, WhatsApp), Alphabet (Google search, YouTube), Apple (iTunes, iCloud, AppStore), Amazon (AWS, Amazon Prime), Microsoft (MS Office, Xbox) e Netflix pesano per il 56% sul consumo dati globale – può incidere sullo sviluppo futuro del settore, tenendo conto dell’obiettivo delle connessioni a 1 Giga per tutti i cittadini e le imprese europee entro il 2030. In particolare, vuole individuare i tipi di infrastrutture necessarie all’Europa per stare al passo con gli sviluppi tecnologici, per poter guidare la trasformazione digitale nei prossimi anni.

In questo senso la consultazione chiede il parere delle parti interessate su come garantire che gli investimenti necessari per la realizzazione di tali infrastrutture siano mobilitati tempestivamente in tutta l’Unione, tenendo conto della necessità che tutti gli attori che beneficiano della trasformazione digitale contribuiscano equamente agli investimenti nelle infrastrutture di connettività.

In realtà però, già dal modo in cui è strutturata e dalle domande che vengono poste nel questionario, l’obiettivo reale sembra essere altro, quello cioè di favorire la contribuzione delle big tech, a cominciare dalla delimitazione del campo di gioco, riducendo l’intera questione in definitiva al solo rapporto tra chi fornisce l’accesso all’infrastruttura (gli Isp) e i fornitori di contenuti, applicazioni e servizi (i Cap).

Il tutto inserito in un contesto nel quale il tema della regolamentazione delle Big Tech, le cosiddette very large platforms o gatekeepers, secondo la definizione adottata nel recente pacchetto digitale (Dsa e Dma), è diventata una delle priorità dell’Unione europea. Se vogliamo la stessa fair contribution che si applicherebbe in questo caso al settore delle telecomunicazioni utilizza la stessa terminologia – equo compenso – cioè la remunerazione degli intermediari (le piattaforme digitali appunto) in favore degli editori, adottata nel mondo dei contenuti e dei media in materia di copyright, così come previsto dalla stessa Direttiva copyright.

Il problema però è che questo parallelismo, nella vicenda in questione, appare quantomeno avventato, per le ragioni che cerchiamo di spiegare di seguito, cercando anche di fare un minimo di chiarezza su tutta la vicenda.

Settore di mercato o ecosistema?

Lo sviluppo di internet ha reso possibile quel processo, a lungo vagheggiato nel secolo scorso, di convergenza tra infrastrutture/reti e servizi/contenuti: il primo tradizionalmente in capo al settore delle telecomunicazioni o comunicazioni elettroniche e il secondo a quello dei media.

Internet, nel favorire questo processo, ha consentito anche la creazione di un più ampio ecosistema, accrescendo la complessità e la reciproca interdipendenza tra i due mercati.

A livello infrastrutturale, questo ha comportato che accanto agli operatori tradizionali, le telco, si siano affermati nuovi attori, le grandi piattaforme, che anche loro contribuiscono direttamente, con i servizi cloud, le Cdn e la stessa posa dei cavi sottomarini, solo per citare alcuni esempi, allo sviluppo delle reti.

Questo significa che ridurre tutto a un problema di tariffe di interconnessione senza tener conto degli ingenti investimenti nel più ampio contesto infrastrutturale non automaticamente comporta un aumento complessivo delle risorse a disposizione dello sviluppo della connettività.

In altre parole, mentre attualmente si assiste a una forte complementarità e a un elevato livello di collaborazione tra i diversi soggetti (telco e big tech), che ha fin qui garantito un continuo costante upgrade della qualità dell’infrastruttura digitale, una possibile indesiderata conseguenza della maggiore remunerazione per gli Isp dalla regolamentazione delle tariffe d’interconnessione, il cosiddetto sending party pays, rispetto all’attuale modello di negoziazione commerciale volontaria, sia proprio quello di rendere meno efficiente il servizio, riducendo gli investimenti proprio in quegli ambiti a più elevata innovazione (Cdn, caches, storage).

Emblematico e forse persino fin troppo abusato è il caso della Sud Corea, l’unico Paese dove questo modello è stato applicato, e dove gli effetti di una regolamentazione rispetto alla negoziazione volontaria si sono rivelati controproducenti.

I limiti della consultazione

Ma anche approfondendo le ragioni dei propugnatori, e fermandosi al solo livello dell’interconnessione, appare davvero tutta da dimostrare la teoria dell’uso quasi parassitario della rete da parte dei Cap, che si avvantaggerebbero, monetizzandolo, del forte incremento del traffico, senza sopportarne i costi. Tutto questo perché i grandi Isp non avrebbero sufficiente potere contrattuale per definire più eque condizioni di accesso alla rete. In questo senso le tariffe d’uso regolamentate della rete, basate sul principio del sending party pays, comporterebbero pagamenti obbligatori, legati al traffico, da parte delle società Internet che forniscono traffico agli Isp.

Come dimostrato anche nel documento preliminare del Berec, l’Organismo che raccoglie le Autorità Nazionali europee di telecomunicazioni ritiene infatti che l’aumento dei volumi di traffico non comporti direttamente costi incrementali significativi rispetto ai costi totali della rete, poiché i costi delle infrastrutture di rete Ip non sono particolarmente sensibili al traffico e sono comunque recuperati nel tempo attraverso gli abbonamenti dei clienti. Inoltre, per le reti fisse, i componenti della rete di accesso più vicini all’utente finale tendono generalmente a essere dimensionati in base al numero di clienti serviti o potenzialmente serviti.

Le reti mobili a loro volta presentano un certo grado di dipendenza dal traffico, poiché il costo relativo alla costruzione di stazioni di base aggiuntive per aumentare la capacità in determinate aree è sensibile al traffico. Tuttavia, i costi marginali dell’utilizzo aggiuntivo dei dati sono piuttosto bassi e questo si riflette anche sugli operatori di rete mobile (Mno), poiché il prezzo delle loro offerte è tipicamente legato alle quote di dati incluse.

Per quanto riguarda l’interconnessione Ip, il Berec ha inoltre precisato che gli accordi di interconnessione prevedono solo la fornitura di capacità del collegamento di interconnessione e non la trasmissione end-to-end di particolari flussi di dati attraverso diverse reti Ip autonome. In pratica, i costi per l’aumento di questa capacità sono spesso condivisi dalle parti coinvolte (cioè Cap e Isp), quindi è reciprocamente vantaggioso per entrambe le parti aumentare i nodi di interconnessione. Inoltre, anche in questo caso, i costi assoluti per l’aumento della capacità di interconnessione sono molto bassi rispetto ai costi di costruzione delle reti di accesso.

Infine, trasferire sui Cap i costi del traffico dimostra che i propugnatori non sembrano tener conto del fatto che la richiesta del flusso di dati di solito non proviene dai Cap, cioè dai fornitori di contenuti, ma direttamente dal cliente finale, che utilizza i servizi e fa crescere il traffico, da cui l’Isp sta già ricavando entrate. In altri termini sono le stesse piattaforme che contribuiscono a creare la domanda di servizi di telecomunicazione, pagata a sua volta dagli utenti finali utilizzatori di tali servizi. In altre parole gli Isp si farebbero pagare due volte, da due soggetti diversi, per la fornitura dello stesso servizio.

D’altro canto, visto dalla parte del mercato a valle dei servizi, è come se i produttori e i fornitori dei contenuti che poi vengono distribuiti dai Cap chiedessero di avere un prezzo regolamentato, e dunque più alto, per ottenere dei Cap (Netflix, Disney, Amazon Prime Video), maggiori ricavi sulle loro produzioni. Di fatto sta avvenendo l’esatto opposto, cioè l’aumento della domanda di questi contenuti spinge i Cap a investire sempre più in tali contenuti (serie, film, sport, ecc.) e a dare all’industria dei contenuti risorse sempre maggiori, determinando l’esplosione dei servizi di video streaming, con grandi vantaggi per tutti gli attori della catena.

In questo senso un ulteriore rischio di una interconnessione regolata sarebbe quello di impattare negativamente sulla diversità dei prodotti, sui prezzi all’utente finale e in definitiva sulla stessa qualità dei servizi.

In definitiva dunque ciò che rende poco convincente la proposta attualmente in consultazione e la consultazione stessa è che in primo luogo non è solo una questione tra Big Telco e Big Tech, semplicemente legata al traffico, ma riguarda l’ecosistema internet, da cui sono esclusi proprio i consumatori, cioè coloro che sono in ultima analisi coloro che tengono in piedi il sistema.

Al di là delle questioni, pure importanti, della net neutrality e dell’open internet, che qui non vengono approfondite, ma che si aggiungono alle contestazioni che da più parti vengono mosse alla proposta dell’equa contribuzione, a mio avviso le questioni decisive che qui abbiamo cercato di evidenziare sono le seguenti:

  • La richiesta proveniente da pochi grandi Isp (la gran parte degli operatori telco alternativi e degli internet service provider sono contrari) non si basa su un’analisi consistente che la giustifichi, sia in termini di problematiche reali sul traffico, che soprattutto sul fatto che ci siano evidenze di fallimenti di mercato. In assenza di ciò, modificare un sistema che ha fin qui funzionato e dato i suoi frutti sia in termini di offerta e qualità dei servizi al consumatore, che di prezzi, in un regime di concorrenza tra operatori, appare poco ragionevole e contro-producente, come emerge anche dall’unico case d’uso internazionale ricordato. Al contrario, imporre ai Cap tariffe con prezzi regolati potrebbe crearne di maggiori, finendo anche per dare più potere agli operatori storici delle telecomunicazioni, che già detengono il monopolio della terminazione.
  • Limitare la questione al solo rapporto economico tra 2 soggetti è riduttivo, inefficace e incapace di cogliere la più ampia realtà del fenomeno che riguarda un ecosistema e non più mercati tra loro distinti. Imporre tariffe d’interconnessione regolate può produrre effetti negativi su tutto l’ecosistema: a livello infrastrutturale, poiché riduce gli incentivi dei Cap a investire in innovazione (cloud, Cdn, ecc); a livello di offerta all’utente finale, perché maggiori costi d’interconnessione significherebbe aumento dei prezzi delle offerte all’utente finale o meno soldi da investire in contenuti, che determinano a loro volta meno contenuti disponibili o contenuti di qualità inferiore. A farne le spese sarebbe in tutti i casi sempre il consumatore, il vero convitato di pietra di questa consultazione. Tutto ciò sarebbe non soltanto irrazionale dal punto di vista economico in quanto inefficiente, ma, come è stato già da altri sottolineato (Associazione tedesca dei media Vaunet), anche inaccettabile dal punto di vista sociale, perché metterebbe a repentaglio l’attuale elevata qualità dell’offerta mediatica in Europa e, in definitiva, il pluralismo dei media.


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