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Don’t go Huawei (e Zte). Gli Usa preparano una nuova legge sul 5G

La prossima settimana la Camera dovrebbe approvare un testo che impegna il dipartimento di Stato a riferire sugli alleati Nato che utilizzano apparecchiature o servizi delle due società cinesi. Ecco cosa significa per l’Italia

Si chiama Countering Untrusted Telecommunications Abroad Act. Tradotto: legge per contrastare le telecomunicazioni inaffidabili all’estero. È un disegno di legge che la prossima settimana dovrebbe essere approvato con ogni probabilità dalla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti in seconda lettura, destinato a riportare la questione 5G al centro dei rapporti transatlantici. Per gli addetti ai lavori è una legge “name and shame” dei Paesi alleati che non hanno vietato, seguendo l’esempio e i suggerimenti statunitensi, i fornitori cinesi Huawei e Zte.

Il nodo non riguarda le leggi cinesi in materia di intelligence che richiedono alle aziende di aiutare il governo cinese a raccogliere dati bensì le violazioni dei diritti umani. È il modo con cui Susan Wild, deputata del Partito democratico, ha scelto di indorare la pillola. “I rapporti ci hanno mostrato come Huawei e Zte operino come veicoli per il Partito comunista cinese per commettere violazioni dei diritti umani contro il popolo uiguro, condurre una sorveglianza di massa e diffondere questa tecnologia ad altri regimi autoritari”, ha dichiarato presentando il disegno di legge l’anno scorso. “Di fronte a questa minaccia, dobbiamo raddoppiare gli sforzi per proteggere la nostra sicurezza nazionale e i nostri interessi, aiutare i nostri alleati” (un altro giro di miele al bicchiere) “a prendere misure vitali per la loro sicurezza e difendere fermamente i diritti fondamentali”.

Ma l’aspetto economico nell’attuale scenario di competizione con la Cina non viene trascurato. “È nell’interesse economico e della sicurezza nazionale degli Stati Uniti garantire che i Paesi del mondo utilizzino apparecchiature o servizi di telecomunicazione affidabili”, recita la norma proposta.

Il testo, se verrà approvato anche dal Senato e diventerà legge così com’è, prevede che le società quotate in borsa dichiarino contratti con Huawei o Zte, dichiarate minacce alla sicurezza nazionale dalla Federal Communications Commission. La stessa ne ha imposto alle società statunitensi la rimozione e la sostituzione (“rip and replace”) pena l’esclusione da un fondo governativo di 8,3 miliardi di dollari per l’acquisto di nuove apparecchiature. Tuttavia, per finanziare il cosiddetto “rip and replace”, il Congresso ha stanziato solo 1,9 miliardi di dollari e la Federal Communications Commission ha spiegato che le aziende hanno bisogno di altri 3 miliardi di dollari per rimuovere dalle reti statunitensi le apparecchiature Huawei e Zte.

Inoltre, la legge attribuisce un importante ruolo al dipartimento di Stato, chiamato a riferire sugli alleati Nato che utilizzano apparecchiature o servizi 5G delle due società cinesi, a stilare un rapporto sulle vulnerabilità delle telecomunicazioni nelle ambasciate statunitensi all’estero e a individuare progetti di infrastrutture di telecomunicazione per promuovere la sicurezza nazionale.

Come dimostrano gli sviluppi del “rip and replace” negli Stati Uniti e la corsa già iniziata verso il 6G, non c’è molto tempo, a meno di non voler perdere del tutto la sfida del 5G.

Dopo il rapporto con cui il Copasir, a fine 2019, aveva invitato il governo a prendere in considerazione l’esclusione dei fornitori cinesi dall’infrastruttura 5G, i vari esecutivi italiani hanno lavorato per costruire un’architettura di sicurezza, con pilastri l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale e la normativa Golden power ristrutturata durante il governo Draghi. Remota è sempre rimasta e rimane l’ipotesi di una vera e propria esclusione. Intanto, però, diversi operatori hanno scelto di ridurre la componentistica “made in China” nelle loro reti. In particolare, Tim ha scelto di dismettere le apparecchiature Huawei e utilizzare nella parte Core il 100% per le apparecchiature della svedese Ericsson e portare nella sezione di accesso (Ran) Ericsson al 70% e la finlandese Nokia al 30% – in linea con la prospettiva europea richiamata ieri da Eugenio Santagata, chief public affairs & security officer di Tim e amministratore delegato di Telsy, in audizione alla commissione Politiche europee della Camera.



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