Il quarto e ultimo incontro del ciclo intitolato “La Forma del desiderio” (filo conduttore degli incontri stessi), organizzato dalla Scuola sulla Complessità assieme al Centro Studi Americani, è stato dedicato al potere. Ne scrivono Michele Gerace, ideatore della Scuola sulla Complessità, e Paolo D’Achille, vicepresidente dell’Accademia della Crusca
La forma del desiderio, la nostra stessa natura, il modo in cui ci meravigliamo, le emozioni che ne nascono, i conflitti tra le diverse prospettive che intravediamo, il retroterra culturale, la motivazione che ci diamo per affrontare piccole e grandi sfide (comprese quelle che sembrano o sono più grandi di noi, del nostro essere tecnologici), la direzione che prendiamo, portano adesso a considerare l’importanza di soffermarci sul mondo in cui viviamo e sul rapporto che c’è tra quest’ultimo e il nostro modo di dargli una forma. È importante farcene una ragione, ricavarne l’idea che Immanuel Kant qualifica come regolativa per iniziarlo a comprendere.
Partendo tanto dalle parti che compongono questo mondo (e che per Scott Buchanan ne rappresentano la possibilità e la condizione), quanto da una visione di insieme (che Platone e Aristotele ascriverebbero al tutto e alla totalità), possiamo risalire alla struttura basilare così comune a tutti i linguaggi che Noam Chomsky ha definito “grammatica universale”, ai nomi che diamo alle cose, al modo che ci diamo per conoscerle, distinguerle, etichettarle e comunicarle. D’altra parte, si dice che la storia inizia con una vera e propria tecnica, vale a dire con la scrittura, prima scolpita, poi dipinta e digitata, che in breve tempo si è rivelata una vera e propria esplosione tecnologica. Veniamo al mondo per dare un nome, scrive John Keats, e il nome che diamo alle cose, agli animali, alle persone, è espressione della nostra natura biologica e culturale. Il fare (ποιέω) un nome (-ατος), per esempio, significa dare luogo a un’onomatopea o a un’esclamazione, nella quale Gottfried Wilhelm von Leibniz sente risuonare, per analogia, gli stati psicologici, i colori della meraviglia e dell’emozione. Ciò che siamo, quello che sentiamo e le idee che ci facciamo diventano una parte di mappa del modo specificamente umano che, secondo Antonio Damasio, abbiamo di stare al mondo, di percepirlo e di conoscerlo. Le diverse prospettive devono essere coordinate allineate su uno stesso orizzonte, che, in fondo, esprime il bisogno inesauribile, più propriamente il desiderio, di vivere, nel migliore dei modi possibili, il migliore dei mondi possibili.
Se per mondo consideriamo il tutto delle parti e la totalità, se ci domandiamo cosa c’è all’origine, se – come abbiamo visto nel secondo articolo di questa serie – ci meravigliamo in un atto che è ogni volta creativo del nostro proprio modo di vedere il mondo, allora, risulta più facile stabilire un nesso tra le parti che lo compongono, che sono parte del tutto e ci danno idea della totalità, e le parti che sono strutturalmente costitutive del nostro essere possibilità, potenza e potere in continuo divenire.
Le tre parole appena indicate, possibilità, potenza e potere, invitano a riflettere sui rapporti tra lingua e potere, rapporti che possono essere indagati secondo varie prospettive. La prima è l’esame storico ed etimologico delle voci lingua e potere:
lingua: Il lat. lingua risale a un precedente dingua, testimoniato dai grammatici, la cui consonante iniziale è cambiata per attrazione di lingĕre ‘leccare’, e ha solidi confronti fra le lingue indoeuropee: sanscr. jihvā, lit. liežùvis, a.slavo językŭ (russo jazýk), a.ingl. tunge (ingl. tongue), a.alto ted. zunga (ted. Zunge). Il latino è alla base di tutte le voci corrispondenti nelle lingue romanze: fr. langue, occit. lenga, cat. llengua, sp. lengua, port. lingua, sardo limba, rum. limbă.. In greco, invece, la parola equivalente è glossa (vocabolo che in italiano significa ‘spiegazione’), con la variante glotta (da cui glottologia). In moltissime lingue, il termine indica tanto l’organo quanto il sistema di comunicazione proprio dell’uomo, in cui la lingua gioca un ruolo fondamentale, una volta che si forma l’osso ioide che la tiene fissa; diversamente, in inglese, su tongue prevale language, il che oscura la differenza tra lingua e linguaggio presente in altri sistemi.
potere: verbo, che già nel secolo XIII è stato convertito in nome (con il plurale poteri e la reggenza preposizionale: il potere di comandare). Deriva dal latino volgare potere, che aveva rimpiazzato il latino classico posse, un composto del verbo latino esse ‘essere’. Il latino. posse ‘potere’ deriva infatti dalla contrazione di potis esse ‘essere capace’, in cui l’aggettivo potis, -e, corrisponde al sanscrito patis ‘signore, padrone, sposo’ e al greco pósis ‘sposo’; accanto alle forme derivate dalla loc. potis esse, come l’indicativo presente possum ‘posso’, il perfetto potuī ‘potei’, ‘ho potuto’ e il participio presente potens, -entis ‘potente’, presuppongono l’esistenza di un tema verbale *potē-, che si è generalizzato nel latino volgare. *potēre. Questo ha determinato quella che in linguistica viene definita allomorfia tematica del verbo, ossia un’oscillazione nel paradigma tra forme con -t- e forme con -ss-. Segnaliamo, infine, che il verbo potere insieme a volere e dovere costituisce la triade dei verbi modali, detti ancheservili, che entrano in perifrasi con infiniti verbali: posso/voglio/devo studiare; non lo posso/voglio/devo vedere, ecc.
Sul piano storico-linguistico, la famiglia di parole legate a potere non ha necessariamente un significato negativo: ciò vale sia per potenza, che ha poi una serie di usi tecnici, potente (ma non per prepotente…), potenziale, sia per possente, possanza, possente che fanno riferimento alla forza o all’imponenza fisica di persone e cose, sia, e a maggior ragione, per possibile e possibilità, e lasciamo da parte tanti altri derivati. Questa possibilità apre a mondi intellegibili che Leibniz e Søren Kierkegaard contano all’infinito e che per Ludwig Wittgenstein sono esprimibili con proposizioni sensate. Mondi ed espressioni che presentano tutte le condizioni che secondo San Tommaso la rendono contingente, appunto possibile. È la potenza all’origine del poter-essere-esseri-desideranti e, per analogia, rispetto alla realtà, della società e – dal Cratone di Platone, a Leibniz, John Locke e Ferdinand de Saussure – del linguaggio stesso. Apre alla possibilità di parlarci, di scriverci, di confrontarci, di darci una regolata e di prosperare in una rispettosa convivenza. La nostra natura, più precisamente – per dirla con Friedrich Hegel – la nostra seconda natura di esseri umani, parlanti e tecnologici, ne è il presupposto.
Con queste premesse, possiamo pensare ai rapporti tra lingua e potere in varie direzioni, tutte interessanti: il potere della lingua; la lingua del potere; il potere contro la lingua. Iniziamo dalla prima. La lingua, intesa come linguaggio verbale, è esclusiva dell’uomo; il potere che ha la lingua è quello di usare un numero di segni piuttosto ridotto, i fonemi astratti rispetto ai foni concreti, la cui combinazione consente la formazione di un elevatissimo numero di parole (o meglio di lessemi), e quindi di poter nominare, ma, prima ancora, di pensare, un gran numero di concetti o oggetti (detti referenti o designata); quanto più la lingua ha una storia, tanto più si ampliano il suo vocabolario e le sue possibilità di descrivere il mondo.
La lingua è fondamentale per pensare e per comunicare. Per Chomsky è l’organo naturale che può esprimere più cose, comprese quelle che si vedono anche mediante strumenti tecnologici e quelle che non si vedono e che si possono pensare perché sono intellegibili. Il linguaggio, la nostra lingua, è strutturalmente legata al pensiero astratto, all’immaginazione, al linguaggio verbale e simbolico, alla memoria, all’esperienza, alla concupiscibilità, all’irascibilità, alla razionalità, alla creatività, a quel surplus di decine di miliardi di neuroni, descritto dal neuroscienziato Giorgio Vallortigara, che abbiamo in più rispetto alle api, pure capaci di potenza cognitiva e di intelligenza sociale. Materia grigia per dare forma e colore al mondo, ricordare, pensare, interpretare e riflettere su noi stessi, saperci incomputabili. La lingua permette di condividere e socializzare la domanda sul perché delle cose. Di risalire alla struttura sociale, culturale, etica e politica, alla possibilità di allineare uno sguardo verso un orizzonte e darci una direzione.
Naturalmente, il potere della lingua può realizzarsi anche in modi diversi, di cui bisogna avere una chiara consapevolezza. Pensiamo al detto “Uccide più la lingua che la spada” o alla famosa frase di Nanni Moretti “le parole sono importanti”. C’è poi il potere da parte dei possessori della lingua: pensiamo anche all’invenzione della scrittura, che ha tracciato un solco tra alfabetizzati e analfabeti. Il problema della scrittura è di rilievo anche da un punto di vista delle neuroscienze: il cervello ha sempre avuto una zona che consente l’apprendimento e l’uso della lingua parlata, ma non quello della lingua scritta, che ha dovuto costruirsi un suo spazio partendo dalle immagini (le prime scritture sono infatti ideografiche). Leggere e scrivere sono attività più complesse, che richiedono uno sforzo maggiore rispetto all’ascoltare e al parlare, proprio perché innaturali, bisognose di un insegnamento/apprendimento. E, a proposito di questo, è ben noto che il possesso della lingua, e non solo di quella scritta, dà il potere – riflessioni molto chiare in questo senso da parte di autori “democratici” come Antonio Gramsci e Don Lorenzo Milani. Basti pensare all’uso del latino in passato anche come lingua della liturgia, o, in certi campi, all’attuale impiego dell’inglese.
A questo punto possiamo riprendere quanto abbiamo scritto nel primo articolo di questa serie quando abbiamo richiamato la discussione tra Aristotele e Anassagora per fare presente che il corpo e le membra (che San Paolo più avanti richiamerà ad unità nello spirito) sono parte della nostra identità, perché sono per noi essenziali tanto quanto l’intelletto che le governa. E, se in questo senso chiariamo la complessa relazione tra l’essere tecnologici e l’essere umani con i nostri pensieri e desideri, dotati di linguaggio, riusciamo a qualificare ancora meglio l’importanza dei perché rispetto ai per come, della possibilità rispetto al senso del limite considerati da Lucien Lévy-Bruhl, del nostro essere liberi a differenza delle macchine perché incomputabili. Il perché è formulazione di una domanda che ha un impatto sui nostri comportamenti, regola il nostro essere nel mondo in mezzo agli altri, tra le altre specie, e stabilisce, di nuovo, una correlazione tra la nostra possibilità potenzialmente infinita di prefigurarci e rappresentarci mondi che sono infiniti. Insomma, il finale non è scontato perché uno di questi mondi è quello in cui dobbiamo vivere, mentre quelli che ci possiamo figurare servono a spingere più in là il mondo in cui viviamo per migliorarci e migliorarlo.
Il riuscirci passa per la capacità di astrarre un’idea, l’idea di noi stessi, delle cose e del mondo, il compiere un’esperienza, raccontarcela mentre la confrontiamo con altre idee – come abbiamo scritto nel terzo articolo di questa serie –, con altre prospettive, mentre componiamo un vero e proprio conflitto e, al tempo stesso, ci accordiamo, stringiamo un patto di convivenza. La possibilità può diventare potere, anzi poteri. Il potere implica il diritto e il dovere di farne un esercizio di educazione, cittadinanza e libertà, per vivere in modo dignitoso, nel rispetto reciproco, sia all’interno di un Paese, sia tra popoli appartenenti a Paesi diversi. Nella prospettiva dell’idea di una Repubblica mondiale al di là da venire e che oggi più che mai ci è difficile intravedere all’orizzonte. Ma non per questo è impossibile.
Allora ha senso domandarci se esiste un’analogia tra il potere e il linguaggio, più precisamente con la lingua, che tra i diversi linguaggi è la più potente. Se la lingua è potere, quali fratture sociali introduce? Come una lingua (che sia parlata o scritta, informale o formale, da sud a nord e da est a ovest, volgare o dotta) evolve? In che modo l’uso che ne facciamo può essere giusto o sbagliato o può dipendere da vari fattori? La lingua può evolvere per diverse ragioni. Una su tutte: per la nostra stessa natura di esseri umani, tradizionali e innovatori, espressivi, comunicatori, sociali e in continua evoluzione. Ancora, possiamo domandarci come una parola entra nel linguaggio comune, se per natura o per convenzione, se dal basso o dall’alto, se segue un’emozione o se è un accordo arbitrario prova di libertà, “così inviolabile di fare che le parole stiano per idee che più gli piacciono – scrive Locke – che nessuno ha il potere di far si che gli altri abbiano nel loro spirito le stesse due idee quando usano le stesse parole che egli usa”, e in che modo segue la dinamica di legittimazione dovuta a un consenso, come questo potere diventa linguaggio, qual è la lingua del potere e quando il potere va contro la lingua.
Ed ecco che la lingua può rientrare in questa nostra riflessione, anzitutto pensando alla lingua del potere, che è forse l’aspetto più studiato dei rapporti tra lingua e potere, come riferimento alla lingua delle istituzioni, dei regimi, di determinate classi sociali e, più in generale, ai processi di standardizzazione, legati spesso a gruppi di potere o alle esigenze di efficienza e velocità imposte da determinati codici linguistici o da nuovi processi comunicativi e tecnologici. Legato al potere della politica è anche l’uso di parole ricorrenti, quasi slogan, di parole proibite, che vengono sostituite da altre, o parole fortemente ideologizzate, che possono avere una valenza positiva o negativa, a seconda di chi le usa. Così, in politica la lingua spesso perde la funzione argomentativa in favore di quella espressiva, emotiva, “identitaria”, e questo vale anche all’interno di gruppi sociali. Discorsi politici legati a un fine persuasivo, spesso velato, finalizzato alla costruzione del consenso. Ma il potere (politico) spesso va contro la lingua: i regimi totalitari che impediscono il diritto alla parola, restringono la libertà di stampa, censurano. Citerei qui anche la messa al bando di parole che avevano una lunga tradizione, ma che a un certo punto sono state considerate politicamente scorrette, o sessiste, ecc.
Il potere delle istituzioni sulla lingua si manifesta anche nell’imposizione di usare una lingua e non un’altra; di studiare solo alcune lingue; pensiamo anche o alle restrizioni all’uso dell’italiano nell’insegnamento e nella ricerca a tutto vantaggio dell’inglese, il cui valore come lingua della comunicazione scientifica internazionale non può certo essere negato. Ma, a proposito dell’inglese e della sua attuale (e passata), espansione, il discorso vale anche per il francese, lo spagnolo e il portoghese, lingue “coloniali”. Non si può non parlare del potere delle stesse lingue, che sono state definite “dialetti provvisti di flotta e di esercito”, con i quali vanno a conquistare altre regioni, altri mondi, a volte determinando un vero e proprio “genocidio linguistico”, come scriveva Pier Paolo Pasolini a proposito dei dialetti, annullati dalla società dei consumi. Ma l’italiano, da questo punto di vista, è stato un po’ diverso: l’italiano, nelle sue basi fiorentine, si è imposto sui dialetti e si è diffuso internazionalmente, specie in passato, come lingua di cultura solo grazie alla letteratura, alle arti, alla musica, alla cucina, allo stile di vita.
Per questa ragione, rapportare la lingua e il potere alla tecnologia, o detta meglio, al nostro essere tecnologici embedded (al riguardo, rinviamo al primo articolo di questa serie), tanto in riferimento alle istituzioni quanto allo stile di vita, aiuta ad impostare un ragionamento su come muovere passi in avanti e aggiornare una mappa con luoghi e connessioni altrimenti invisibili, può dare spazio a nuove possibilità di relazione e può prospettare soluzioni prima impensabili. Può diminuire o amplificare la nostra stessa natura, può aiutarci ad alzare l’asticella e a pareggiare le condizioni di partenza, a condividere un’idea più larga di diritti, doveri e libertà, a mettere assieme idee diverse verso lo stesso orizzonte, a sondare nuovi limiti e nuove opportunità, e a creare consenso attorno a regole con le quali darci nuove opportunità. Proprio rispetto a questa possibilità con l’iniziativa La forma del desiderio e gli articoli (compreso questo) ad essa riferiti, abbiamo voluto soffermarci su cosa legittima un’idea in confronto alle altre, su come si arriva a condividerla, quale sia la base per la quale quella idea può acquisire potere, potenza di essere e di trasformarsi in atto, di diventare realtà, di dare forma alla realtà al mondo nel quale viviamo.