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Governare è nominare, specie in uno Stato interventista. L’opinione di De Tomaso

Il borsino del comando è indicato in Italia soprattutto dal potere di scegliere gli amministratori delle aziende pubbliche. Per cambiare strada, servirebbe una cura dimagrante da parte dello Stato. Il commento di Giuseppe De Tomaso

Chi comanda in un partito? Semplice, rispondeva un pezzo da novanta della Prima e Seconda Repubblica, comanda chi sceglie i candidati alle elezioni. Non a caso, nella Democrazia cristiana, spesso il segretario del partito contava più del presidente del Consiglio anche se, paradossalmente, a volte il titolare di Piazza del Gesù contava meno del capocorrente più robusto. Erano quasi sempre il segretario o l’azionista di riferimento del partito a pronunciare l’ultima parola sulle liste per le consultazioni nazionali ed europee. E comunque il borsino del potere effettivo poteva prescindere dai gradi ufficiali, dalle mostrine esibite in pubblico o sui giornali.

Schema analogo a proposito del borsino di governo. Chi comanda davvero nell’esecutivo? In passato poteva accadere che l’inquilino di Palazzo Chigi fosse meno potente di un ministro provvisto di un maggiore peso contrattuale nel suo partito. La cartina di tornasole per stabilire la classifica del potere in un governo, e di conseguenza in una coalizione, era più didascalica di una cartolina a colori: chi otteneva più nomine di sottogoverno per sé e per i suoi era il padrone, l’uomo forte del momento. Giulio Andreotti (1919-2013), che della concretezza si faceva vanto e scudo, tanto da aver intitolato così, Concretezza, la propria rivista (quindicinale) di corrente, sintetizzava, appunto, alla sua maniera i termini della questione: governare è soprattutto nominare. Tutt’altra musica rispetto allo spartito funzionariale del militare francese Charles de Gaulle (1890-1970), per il quale governare era innanzitutto asfaltare.

La storia italiana sta a dimostrare che da noi prevale la teoria del Divo Giulio: governare è soprattutto nominare. Lo è sia per motivi, diciamo, di orgoglio personale, sia per altro: che razza di capo sarebbe un leader incapace di piazzare i propri candidati ai vertici dell’establishment pubblico? Risulterebbe, o apparirebbe, come minimo un premier dimezzato, azzoppato.

Ma accanto alle considerazioni legate all’autostima, al puntiglio, all’autopromozione individuale, ci sono valutazioni più recondite, che attengono alla tipologia dello Stato e del potere in Italia.

In un Paese a massiccia presenza pubblica in economia, in un Paese la cui Borsa è affollata di società controllate dallo Stato, cioè dal governo, cioè dalla politica, è inevitabile che la partita delle nomine nelle aziende partecipate, finisca per diventare sempre più ossessiva e decisiva, anche per la stessa stabilità di una maggioranza, di qualsiasi altro dossier e/o problema incollati da mesi ai tavoli ministeriali.

Era perciò scontato che Giorgia Meloni avrebbe voluto recitare la parte della leonessa nella poco silenziosa, e in alcuni momenti assai intensa, battaglia per le nomine nei colossi a parziale capitale pubblico. Così, come era scontato che gli altri soci della coalizione avrebbero voluto contenere il decisionismo meloniano, prima alzando un muro contro alcuni top manager da lei designati, poi proponendo nomi alternativi, infine non escludendo, in caso di niet da parte di Palazzo Chigi, ritorsioni su Pnrr, Ucraina e rapporti con l’Europa tali da mettere a repentaglio la tenuta stessa del governo. In effetti, nemmeno alla vigilia della formazione di una squadra ministeriale il tasso di elettricità di un’alleanza raggiunge gli altissimi livelli di tensione che precedono la confezione del pacchetto di nomine per le principali scrivanie del capitalismo statale. E tutto ciò per svariati motivi. Uno, perché l’amministratore delegato di un’azienda di Stato pesa assai più di un ministro. Due, perché qualsiasi presidente del Consiglio, stavolta la Meloni, tende sempre a rafforzare la sua leadership soprattutto attraverso il controllo delle imprese pubbliche, destinatarie e spesso ispiratrici delle scelte quotidiane dell’esecutivo. Tre, perché, appunto, lo Stato profondo, il cosiddetto Deep State, non lo si guida solo da Palazzo Chigi, ma anche o soprattutto tramite i suoi gangli vitali, tramite le ramificazioni societarie in settori delicati come l’energia, le nuove tecnologie, la robotica, lo spazio e via elencando. In soldoni: Eni, Enel, Poste, Leonardo valgono, pesano, incidono e contano molto di più di un governo ufficiale. Anzi, sono loro il vero governo. Quello reale, concreto.

Che pensare: ancora suk, lottizzazione, partitocrazia? Intendiamoci. Per cambiare verso servirebbe una rivoluzione culturale, prima che ideologica, più facile a dirsi che a realizzarsi. Sarebbe davvero una bella conquista, per la salute di una società liberale, se lo Stato italiano optasse per una drastica cura dimagrante, limitandosi al controllo di poche predefinite attività strategiche, fondamentali per la sicurezza nazionale. Ma questo traguardo, oggi, appare più lontano del pianeta Saturno. Ecco perché non rimane che sperare nella qualità e nel rendimento dei vertici aziendali (vecchi e nuovi), ossia confidare nel primato della competenza (riconosciuta pressoché per tutti i nominati) rispetto alla tradizionale logica dell’appartenenza. Ma anche, sotto questo profilo, non è semplice ottenere l’unanimità dei pareri, vuoi perché i giudizi sulle doti professionali dei prescelti possono divergere da persona e persona, per cui chi per un osservatore è esempio di competenza, per un altro analista è simbolo di appartenenza, e viceversa; vuoi perché, in Italia, trovare un manager privo di agganci politici e protezioni eccellenti è più raro che segnare un gol da centrocampo. E poi. Molti tecnici, anche i più celebrati, in realtà brillano innanzitutto per capacità lobbistiche o per abilità nella frequentazione dei salotti, quasi sulla falsariga di Jep Gambardella, il personaggio chiave de La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino. E tuttavia non va dimenticato che anche il sistema pubblico italiano ha saputo esprimere amministratori di eccelsa qualità, a iniziare da Enrico Mattei (1906-1962).

Sarà, come sempre, il tempo a stabilire se le scelte, se le nomine effettuate dal governo Meloni si riveleranno felici o meno. Nel Paese a più alto tasso di dirigismo dell’Occidente, è ancora la classe politica a decidere chi comanda nelle principali imprese quotate. E fino a quando lo scenario non cambierà, sarà sempre così. Si fa prima a farsene una ragione.

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