Per crescere, oggi come ieri, bisogna guardare ai giovani e al lavoro, rianimare le “forze vive” nella società. Ne gioverebbe anche la demografia. Parafrasando Shaw, dove c’è futuro c’è famiglia. L’intervento di Romana Liuzzo, presidente Fondazione Guido Carli e organizzatrice del Premio Guido Carli, che sarà consegnato il 5 maggio 2023
Diceva George Bernard Shaw che «forse il più grande servizio sociale che possa essere reso da chiunque al Paese e all’umanità è formarsi una famiglia». Lo scrittore irlandese non poteva immaginare quanto la sua riflessione sarebbe stata calzante per l’Italia del 2023. Un Paese in cui – ci ricorda l’Istat – dal 2007 la mortalità ha superato la natalità e in cui le donne senza figli sono arrivate ad essere una su quattro per le nate nel 1980 (secondo la stima a fine vita riproduttiva), il doppio rispetto alla generazione del 1950.
Nel 2021, con appena 400.249 nati, l’Italia ha superato di nuovo il record negativo del più basso numero di nascite, già raggiunto nel 2020. Si tratta del 31% in meno (176mila) rispetto al 2008, che era stato l’anno del massimo relativo più recente delle nascite, come ha sottolineato il direttore centrale Istat Sabrina Prati nel corso di un recente convegno promosso da Farmindustria.
Dov’è finito il Paese di “Una giornata particolare” o di “Rocco e i suoi fratelli”, quello delle famiglie con cinque, sei figli, quello dei nugoli di bambini nelle strade e nelle piazze? Svanito. Quasi la metà delle donne non ha figli. I primi figli dal 2008 al 2021 sono calati del 34,5% (-98mila). E nel 2022 il trend non sembra invertito, anzi: nei primi dieci mesi si sono registrati quasi 9mila nati vivi in meno rispetto all’anno precedente.
Lo spostamento in avanti dell’età della maternità è evidente: nel 1995 l’età media al parto era di 29,8 anni; nel 2021 è di 32,4 anni. I tassi di fecondità continuano a diminuire tra le donne più giovani. Ma il rinvio della maternità spesso diventa la rinuncia definitiva ad avere figli.
La questione demografica in Italia è una bomba a orologeria, dalle forti implicazioni sociali ed economiche. Come non si stanca di ripetere il demografo Alessandro Rosina, autore del libro “Storia demografica d’Italia. Crescita, crisi e sfide” (Carocci editore, 2022), la riduzione della natalità deve essere letta insieme al progressivo aumento della quota di popolazione anziana. Perché l’Italia, a differenza di altri Paesi “vecchi” dove comunque il rimpiazzo generazionale avviene, sta conoscendo un fenomeno particolare di «degiovanimento»: l’assottigliamento dei giovani.
Un fenomeno che deve interrogare tutti sulla sostenibilità del sistema, che domanderà sempre più sanità pubblica e pensioni proprio mentre la forza di sostegno della popolazione in età attiva si indebolisce ogni giorno che passa. In gioco ci sono le fondamenta della salute di uno Stato: la capacità di produrre ricchezza e la possibilità di far funzionare il welfare.
L’Istat ha stimato che il calo delle nascite negli ultimi tredici anni è attribuibile per i due terzi al cosiddetto “effetto struttura”, ossia alla persistente denatalità che ha ridotto la stessa popolazione femminile (sono un milione in meno rispetto al 2008 le donne in età fertile, tra i 15 e i 49 anni). Un terzo è invece legato alla diminuzione della fecondità.
Sulla base di questa mappa fondata sui dati, risulta chiaro quali siano le leve a nostra disposizione per invertire la rotta, anche confrontando la nostra situazione con quella di altre nazioni vicine alla nostra. Risolvere le distorsioni sul mercato del lavoro – la sempre minore presenza tra gli occupati dei 15-34enni, il mismatch che impedisce il corretto incontro tra domanda e offerta, l’occupazione femminile ancora al 51%, lontanissima dalla media europea e distante 18 punti percentuali da quella maschile – potrebbe anticipare l’età dell’indipendenza economica e dare una spinta alla natalità, con efficaci politiche di sostegno. Ciò consentirebbe di affiancare agli interventi organici un elemento culturale che non va sottovalutato: il ripristino di una narrazione positiva della famiglia, della maternità e della paternità. Eliminare divari e disuguaglianze e facilitare il lavoro giovanile e femminile significa anche togliere argomenti a chi vede nei figli un ostacolo alla propria realizzazione personale. Un peso e un sacrificio, più che una magnifica avventura.
Serve quello che papa Francesco ha chiamato «la testimonianza gioiosa dell’essere famiglia e l’impegno per una buona politica per e con le famiglie». Occorre poter affermare, fatti alla mano, che “famiglia è bello”.
Liberare le energie del Paese e valorizzare i talenti dei giovani è stato un imperativo categorico per Guido Carli, ex governatore della Banca d’Italia in anni cruciali per lo sviluppo del Paese e poi ministro del Tesoro tra i firmatari del Trattato di Maastricht. La Fondazione a lui intitolata, che mi onoro di presiedere per tramandare l’eredità dello statista, mio nonno, celebrerà i trent’anni della sua scomparsa con la cerimonia di assegnazione del Premio Guido Carli a quindici donne e uomini che danno lustro all’Italia nel mondo.
La XIV edizione del Premio si terrà il 5 maggio alle ore 17.30 e sarà ricca di novità e di sorprese. A cominciare dal luogo solenne che la ospiterà, il Teatro dell’Opera di Roma, fino alla formula scelta. Con la grande musica protagonista e un parterre d’eccezione: imprenditori, top manager, illustri rappresentanti delle istituzioni. Ma anche nomi di primo piano del cinema, dello sport e della canzone. È il nostro modo per testimoniare l’attualità del pensiero di Carli: per crescere, oggi come ieri, bisogna guardare ai giovani e al lavoro, rianimare le «forze vive» nella società. Ne gioverebbe anche la demografia. Parafrasando Shaw, dove c’è futuro c’è famiglia.