La questione dei prodotti agricoli spaventa quegli Stati membri che sono scettici sul processo di adesione per l’Ucraina. Ma se i negoziati non iniziano quest’anno, rischiano di ritardare troppo (nel 2024 si vota e si blocca tutto). La partenza darebbe speranza agli ucraini e spingerebbe Bruxelles e Kyiv a fare le riforme necessarie per tutelare i membri attuali. L’alternativa è il modello Serbia, che a forza di aspettare è finita tra le braccia di Mosca
A quattordici mesi dall’inizio del conflitto ucraino, la strada che Kyiv deve percorrere per finalizzare il suo accesso all’interno dell’Unione Europea appare sempre più ripida. Dopo gli enormi passi mossi nei primi mesi della guerra sembra che il processo di integrazione europea abbia perso il suo momentum iniziale, trovandosi di fronte a ostacoli di diversa natura.
L’ultimo di questi in ordine cronologico riguarda le conseguenze che l’acquisizione della membership europea da parte di Kyiv avrebbe sul piano economico, e in particolare su quello agricolo. L’implementazione da parte dell’Unione Europea dei ‘Solidarity Lanes’ (come viene definito il piano d’azione presentato dalla Commissione Europea nel Maggio 2022 per facilitare l’export dei prodotti agricoli ucraini in seguito al blocco navale imposto dalla Marina Russa verso i porti ucraini), assieme alla sospensione dei dazi e delle quote normalmente previsti per prodotti originari di paesi esterni all’Unione, hanno infatti portato a un crollo del prezzo dei prodotti agricoli, specialmente nei mercati nazionali dei paesi membri più vicini al confine ucraino come Romania, Bulgaria e Polonia, fino ad ora uno dei paesi più attivi nel sostenere l’Ucraina.
Proteste da parte degli agricoltori locali si sono verificate in tutti i paesi colpiti dal crollo dei prezzi, specialmente in seguito all’annuncio di voler estendere le facilitazioni per l’importazione dei prodotti agricoli ucraini fino al giugno 2024. Liliana Piron, executive director della Lega dei Produttori Agricoli Romeni, ha affermato durante una manifestazione di protesta tenutasi a Bucarest che i contadini romeni sono arrivati al punto di non poter più fronteggiare i costi dell’iniqua competizione dell’import ucraino, e che a tre mesi dal periodo del raccolto vi è un forte pericolo che i prodotti agricoli romeni debbano essere venduti a prezzi inferiori ai costi di produzione, con il rischio di bancarotta per molti agricoltori.
Numerose manifestazioni si sono registrate anche in Polonia, dove le proteste dei produttori agricoli locali si sono concentrate sulla figura del Ministro dell’Agricoltura Henryk Kowalczyk per il suo fallimento nel tutelare l’economia agricola polacca dalle conseguenze delle massicce importazioni di grano ucraino. Kowalczyk, che si è fatto promotore delle istanze dei contadini polacchi in sede europea, ha rassegnato le proprie dimissioni ad inizio aprile in risposta alla decisione di prolungare di un anno le facilitazioni all’importazione di grano ucraino, in totale contrapposizione alla proposta del governo di Varsavia (e non solo) di ristabilire per i prodotti agricoli ucraini le stesse barriere economiche normalmente applicate alle importazioni di paesi extra-Ue.
La questione non è però stata totalmente ignorata dalle istituzioni europee. Su impulso del commissario all’Agricoltura Wojciechowski, lo scorso marzo la Commissione europea ha sottoposto all’attenzione dei ministri dell’Agricoltura degli stati membri un pacchetto d’aiuti dal valore di 56,3 milioni di Euro: obiettivo di questo tesoretto è quello di compensare le distorsioni di mercato causate dall’incremento degli afflussi dei cereali ucraini, con lo scopo dichiarato di prevenire riduzioni nelle quantità di semina da parte dei contadini dei paesi dell’Europa Orientale.
Ma le preoccupazioni non riguardano soltanto i problemi correnti. Sono diffusi i timori che la situazione attuale possa solo peggiorare con un’adesione accelerata dell’Ucraina all’Unione Europea, e con il conseguente accesso di Kyiv ai Fondi Strutturali Europei e alle risorse stanziate per la Politica Agricola Comune.
Il timore diffuso tra gli ‘addetti ai lavori’ è che un eventuale rallentamento del processo di adesione ucraina all’Unione rischi di portare ad un impantanamento dello stesso così come già accaduto nel caso della Serbia, candidata da quasi quindici anni ma ancora apparentemente lontana dal traguardo. Nel febbraio di quest’anno, i Presidenti di otto diversi paesi dell’Europa Orientale avevano presentato una lettera formale in cui chiedevano un inizio immediato delle trattative per l’ammissione di Kyiv all’interno dell’Unione a 27, proprio per evitare il verificarsi un nuovo ‘caso serbo’. Ma alla luce delle problematiche emerse nelle ultime settimane, l’inizio di questi negoziati potrebbe allontanarsi.
Dal lato dei sostenitori dell’adesione dell’Ucraina all’Ue (in particolare tra i Paesi baltici) si mette in risalto un elemento: finché non inizia il processo, che ha comunque tempi lunghi, non ci sarà mai la pressione necessaria per riformare le regole della Politica agricola comune (che necessitano una revisione, indipendentemente dal caso ucraino) né quelle sul processo decisionale (idem). Un inizio dei negoziati quest’anno – prima che le istituzioni europee siano paralizzate dal processo elettorale e dalla nascita di una nuova Commissione nel 2024 – darebbe speranza al popolo ucraino e metterebbe i suoi leader su un percorso di riforme, lotta alla corruzione, rule of law.
Dalla loro, possono citare l’effetto clamoroso che l’ingresso nell’Ue ha avuto sulle economie degli ex Paesi sovietici, alcuni dei quali passati dall’avere un Pil pro-capite che era circa il 30% di quello comunitario, al 90% di oggi. Mentre la Serbia, a forza di aspettare un via libera, è oggi più filo-russa e spina nel fianco di quanto non lo fosse 15 anni fa.