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Batistuta, l’ultimo centravanti raccontato da Andrea Romano

La sua storia ci spiega quanto in verità abbiamo sempre frainteso il concetto di talento”, spiega l’autore del libro. “Non è necessariamente un dono naturale, può essere costruito, spesso mediate un’autodisciplina spietata. Per lui è stato così”

Batistuta, l’ultimo centravanti. “Tutti sanno che, giallorossa è la sua nuova maglia, quando segnerà sotto la curva ce fa la mitraglia”. Il nuovo libro del giornalista sportivo Andrea Romano racconta Gabriel Omar Batistuta, straordinario centravanti argentino con più di 300 goal in carriera di cui 208 alla Fiorentina. Nato nella piccola Avellaneda, città dell’Argentina nella provincia di Santa Fe, Batistuta ha poi vestito le maglie del Newell’s Old Boys, del River Plate, del Boca Juniors e poi di Fiorentina e Roma, con una breve parentesi all’Inter per poi chiudere la carriera all’Al-Arabi. Romano ci racconta, nel suo volume edito da 66thand2nd (256 pagine, 18 euro), le gesta del cannoniere argentino, la sua carriera, il suo amore folle (e ricambiato) per Firenze, lo scudetto con la Roma da protagonista e quella generosità che lo ha fatto andare oltre i limiti del suo corpo, per poi pagarne le conseguenze.

Andrea, intanto complimenti per il racconto davvero appassionato di uno dei più grandi centravanti del calcio moderno. Com’è nata l’idea di scrivere un libro su Batistuta?

Perché Batistuta non è solo uno dei giocatori più iconici della Serie A nel suo periodo di massimo splendore, quello che attraversa tutti gli anni Novanta, ma è anche un calciatore che è riuscito a diventare sinonimo del ruolo stesso che ha ricoperto. E poi la parabola di Gabriel ha qualcosa di letterario. La sua è la storia di un calciatore straordinario che ha passato tutta la vita a rincorrere lo scudetto, giocando spesso in condizioni precarie, con le caviglie e le ginocchia in disordine, convivendo quotidianamente con il dolore. Poi, una volta vinto il campionato, il suo talento si è eclissato per i problemi fisici. Batistuta non ha imboccato il viale del tramonto, si è praticamente liquefatto.

Il volume è scandito da 14 capitoli, più un prologo e i “titoli di coda”. Parti dall’inizio, dalle sue origini e dalla sua crescita calcistica che procede a “rilento”. Com’è nata la portentosa macchina da goal che abbiamo conosciuto nel nostro campionato?

La sua storia ci spiega quanto in verità abbiamo sempre frainteso il concetto di talento. Spesso lo associamo all’idea di predestinazione oppure finiamo per confonderlo con la classe, la grazia, la leggiadria che appartiene a fenomeni come Maradona o Baggio. Il talento invece non è necessariamente un dono naturale, può essere costruito, spesso mediate un’autodisciplina spietata. Per Batistuta è stato così. Ha iniziato a giocare sul serio a pallone in un’età relativamente avanzata, così ha dovuto lavorare enormemente su se stesso per sgrezzare la sua tecnica e ridurre il gap con gli altri giocatori. Tant’è che, soprattutto nei suoi anni italiani, ha sviluppato una vera ossessione per il lavoro sui fondamentali. Ma c’è anche un altro fattore alla base della sua esplosione come bomber.

E sarebbe?

Óscar Washington Tabárez. Nei primi anni della sua carriera Gabriel viene schierato come attaccante esterno. Non il massimo per un giocatore che non ha un grande dribbling. I suoi compagni lo chiamano il “Tir” perché quando va via in progressione fa saltare gli avversari come birilli. Il ct dell’Argentina, Alfio Basile, racconta che la prima impressione che ha avuto di Gabriel è stata negativa, gli sembrava uno con «due ferri da stiro al posto dei piedi». Tabarez, al Boca, sposta Batistuta al centro dell’attacco. E la cosa, magicamente, funziona. Il Tir si dimostra un attaccante molto più completo di quanto si potesse pensare. Tanto che Batistuta si trasforma in Batigol.

La Fiorentina. Hai scelto una cover con maglia viola anziché quella giallorossa. La Fiorentina è stata la “squadra” di Batistuta, quella della prima “mitraglia” in Serie A. Raccontaci un po’ come reagì Firenze quando apprese della sua partenza verso Roma.

L’addio era nell’aria già da un paio d’anni. Gabriel era diviso. La ragione gli diceva di andare a vincere altrove, il cuore gli imponeva di restare. Quando Inter e Roma si sono fatte sotto, nell’estate del 2000, le condizioni erano cambiate. Nel 1999 la grottesca gestione della fuga di Edmundo verso il Carnevale di Rio, nel giorno in cui la Fiorentina campione d’inverno aveva perso per infortunio proprio Gabriel, è stata un po’ uno spartiacque. Era come se si fosse capito che quella squadra bellissima ma fragile non era sorretta adeguatamente dalla società. In molti compresero la scelta di Bati di andare via, tant’è che un’infinità di tifosi si presentò sotto casa dell’argentino non per chiedergli di restare, ma solo per dimostrargli il proprio affetto. Certo, vederlo andare via per provare a vincere altrove è stato doloroso, ma alla fine il tempo è riuscito a suturare tutte le ferite.

E poi la Roma, con le coppe e lo scudetto indimenticabile del 2001. Quali le emozioni di quegli anni?

Quando Gabriel arriva alla Roma tanto i giocatori quanto i tifosi capiscono immediatamente di essere diventati i grandi favoriti per lo scudetto. L’accoglienza di Bati all’Olimpico è qualcosa di difficile da spiegare: un mare di uomini e di donne che si mettono a piangere di gioia, quasi increduli di vedere il centravanti più forte al mondo con la maglia giallorossa addosso. Batistuta ha dominato la prima parte del campionato. Il gol in casa contro la Fiorentina, con un tiro che sembra quasi un quadro futurista, la doppietta in casa del Parma, la punizione contro il Verona sono quelli che, parafrasando Foster Wallace, potremmo chiamare “Momenti Batistuta”, ossia reti che solo l’argentino avrebbe potuto segnare. Eppure, nonostante la gioia immensa dello scudetto, Gabriel non riuscirà ad avere con i tifosi della Roma lo stesso rapporto empatico che aveva avuto con quelli della Fiorentina.

La fine è il mio inizio scriveva Terzani. Il dolore fisico, per i noti problemi alle gambe, e quello mentale che tutti i calciatori soffrono alla fine della loro carriera. Come vivere l’oggi dopo un passato così straordinario?

Gabriel vive ancora sospeso. Tutti si aspettano il ricongiungimento con la Fiorentina, magari con qualche ruolo che vada oltre la semplice rappresentanza, eppure finora il matrimonio non è stato celebrato. Gabriel però è molto più di un’icona. Il ricordo di come dominava le aree di rigore avversarie è stato in qualche modo ingigantito dai suoi problemi fisici. L’attaccante che sembrava fatto di acciaio in verità ha chiesto di diventare «Come Pistorius», che gli venissero tagliate le gambe, tanto era insopportabile il dolore che provava a fine carriera. E proprio in questo vivere assediato dal dolore c’è tutta la grandezza e l’unicità di Gabriel.



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