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Strada spianata (dopo la fuga dei candidati) per il bis cinese alla Fao

Iraq e Tagikistan (entrambi membri della Via della Seta) hanno ritirato i loro candidati e la conferma dell’ex ministro di Pechino alla guida dell’agenzia Onu di Roma è ora una formalità. Le ombre sul voto italiano nel 2019 e le sfide (in salita) del decennio

Manca poco più di un mese alla quarantatreesima sessione della Conferenza Fao e la strada che porta verso un secondo mandato del politico cinese Qu Dongyu alla guida dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, con sede a Roma, è spianata. Infatti, il direttore generale uscente, eletto nel 2019, ha sbaragliato la concorrenza già diversi mesi fa. A marzo la diplomazia irachena ha comunicato di aver ritirato la candidatura di Hamid Khalaf Ahmed e il mese dopo quella tagika ha fatto lo stesso con Dilshod Sharifi (sia Iraq sia Tagikistan sono Paesi membri della Via della Seta).

Nel 2019 il biologo e viceministro cinese dell’Agricoltura, oggi quasi sessantenne, aveva ottenuto 108 preferenze su 191 Paesi partecipanti. Era diventato il primo direttore generale espresso da un governo comunista a insediarsi nell’edificio romano pensato da Benito Mussolini come ministero per l’Africa italiana. Si era imposto sfruttando le divergenze transatlantiche: l’Unione europea aveva sostenuto la francese Catherine Geslain-Lanéelle, fermatasi a 71 voti; gli Stati Uniti il georgiano Davit Kirvalidze, a 12.

Una sconfitta per l’allora presidente americano Donald Trump, che aveva reagito minacciando di tagliare i fondi all’organizzazione. Una vittoria per il sistema Cina. All’epoca si era mormorato che dietro la rinuncia di Médi Moungui ci fosse la promessa di Pechino di saldare un pezzo del debito del Camerun. Inoltre, il quotidiano francese Le Monde aveva rivelato che il governo cinese aveva fatto pressioni su Brasile e Uruguay minacciando “il bando delle loro esportazioni agricole verso la Cina se questi due Paesi non avessero dato il loro voto”.

E l’Italia? All’epoca erano circolate insistentemente voci secondo cui il governo guidato da Giuseppe Conte (il primo) avesse deciso di rompere le righe dell’Unione europea, che aveva annunciato il sostegno compatto alla candidata francese. Non c’è mai stata una dichiarazione ufficiale da parte dell’esecutivo. Il quale aveva immediatamente inviato le sue congratulazione al nuovo direttore generale, con messaggi del presidente del Consiglio, dei ministri Enzo Moavero Milanesi (Esteri) e Gianmarco Centinaio (Politiche agricole, alimentari, forestali e turismo).

L’ambiguità di Roma lasciò almeno una delle due superpotenze insoddisfatta. O la Cina, con cui soltanto pochi mesi prima il governo aveva siglata il memorandum d’intesa sulla Via della Seta rendendo l’Italia il primo e ancora oggi unico Paese del G7 ad aderire al programma infrastrutturale lanciato dal leader Xi Jinping. O gli Stati Uniti, dove soltanto pochi giorni prima del voto Matteo Salvini, allora vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno, era volato per assicurare alla Casa Bianca che l’Italia era il miglior alleato europeo.

Alla fine del suo secondo mandato quadriennale Qu avrà diretto l’organismo dal 2019 al 2027, otto anni decisivi in un decennio cruciale. Basti pensare che le Nazioni Unite hanno l’obiettivo di sconfiggere entro il 2030 fame, insicurezza alimentare e malnutrizione in tutte le sue forme. Un obiettivo che però si sta allontanando anno dopo anno. Infatti, il numero delle persone che soffrono la fame a livello mondiale è salito a ben 828 milioni nel 2021, ossia circa 46 milioni in più dal 2020 e 150 milioni in più dallo scoppio della pandemia di Covid-19, secondo l’ultimo rapporto.

Tra i dossier sulla scrivania di Qu ci sono e ci saranno: la guerra in Ucraina, con gli Stati Uniti che nei giorni scorsi (quelli appena dopo la visita a Roma di Cary Fowler, inviato speciale della diplomazia americana per la sicurezza alimentare) hanno pubblicato un rapporto accusando la Russia di continuare a utilizzare il cibo come arma di guerra, con un impatto devastante su tutto il mondo; il futuro dell’Africa, continente in cui si decideranno le sorti dell’Europa ma anche dell’espansionismo cinese.

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