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Come voi, amici miei. La leadership secondo Gianluca Giansante

Di Gianluca Giansante

Pubblichiamo un estratto del libro Leadership. Teorie, tecniche, buone pratiche e falsi miti (Carocci editore), di Gianluca Giansante

La prefettura di Metz, nella Francia del Nord, è un bell’edificio in stile classico, al centro di un isolotto sul fiume Mosella. È il 12 giugno 1831 quando, al termine di una visita ufficiale, dal grande portone di legno verde esce il re, Luigi Filippo. Mentre attraversa il cortile inizia a piovere. Il re chiede il suo mantello ma i suoi assistenti non riescono a trovarlo subito. Vedendo la Guardia nazionale schierata, Luigi Filippo decide di passarla in rassegna. Nel frattempo, la pioggia si infittisce.

Così racconta la scena lo stesso sovrano in una lettera alla consorte, Maria Amelia di Borbone, principessa delle Due Sicilie: “il servitore mi raggiunse con il mantello sulla piazza, dove, nonostante la pioggia, c’era una folla immensa; gli dissi di riportarlo indietro. Gli feci un gesto che indicava di portarlo via; i soldati non avevano un mantello, e neanch’io lo volevo. L’acume dei francesi mi comprese al volo ed ecco che risuonò il grido “Bravo il Re!”, “Viva il Re!”, che mi accompagnò per tutto il tragitto” (Corbin, 2013, trad. it. p. 30).

Il gesto del re viene applaudito perché ha un valore simbolico profondo, il sovrano sembra dire: “Io sono come voi, se voi vi bagnate, mi bagno anche io”. Viene apprezzato perché rappresenta in modo plateale la fine dei privilegi della monarchia, delle stravaganze e degli eccessi che, solo qualche decennio prima, avevano dato il via alla Rivoluzione francese, costando il trono (e la vita) a Luigi xvi. Per Luigi Filippo è un modo per prendere le distanze dalle cerimonie sfarzose dell’Ancien Régime e per presentarsi in modo radicalmente diverso, rafforzando il suo legame con i francesi e cominciando a costruire l’immagine di un re vicino al popolo.

Consapevole dell’effetto di questo gesto, Luigi Filippo lo replicherà più volte nel corso del suo viaggio per le province francesi. La scena si ripeterà a Bayeux, Besançon, Caen, Mulhouse, Nancy, Pont-Audemer, Pont-à-Mousson, Strasbourg e, più tardi, a Rouen. Un giornale dell’epoca riporta l’episodio: “Una donna gli porge un ombrello e un uomo gli consiglia di restare in vettura. A tutti, il sovrano risponde: “Come voi, amici miei”. “Le acclamazioni e i viva – dichiara il giornalista – si sono intensificati” (ivi, p. 33). Sempre attraverso le lettere del re alla moglie scopriamo che il sovrano si rallegrava ogni volta che incontrava la pioggia, mentre si rattristava con il bel tempo, che gli precludeva la possibilità di esibire la sua sintonia con il popolo.

La pioggia rappresenta uno dei modi più evidenti per i governanti di manifestare la loro vicinanza ai cittadini. Celebri sono, per rimanere in Francia, alcuni discorsi di Charles de Gaulle sotto il diluvio, ma anche la sfilata di Hollande sotto il nubifragio per l’insediamento all’Eliseo, così descritta da un giornalista: “il presidente […] è salito sugli Champs Elysées, rimanendo stoicamente sulla sua decapottabile ds5, e arrivando zuppo all’Arc de Triomphe” (afp, 2012). Andando negli Stati Uniti, invece, fra le foto presidenziali più interessanti ce n’è una che ritrae Barack Obama durante un comizio per la rielezione in Virginia. Il presidente è fradicio sotto un temporale estivo, la camicia celeste completamente bagnata, il volto grondante.

È un’immagine che comunica immediatamente empatia, condivisione, partecipazione. Ma non è un’invenzione della modernità, già nell’antichità i grandi condottieri erano consapevoli dell’importanza di condividere lo stile di vita dei popoli che guidavano. Nel iv secolo a.C., Senofonte riporta – nella Ciropedia – i principi dell’educazione di Ciro il Grande, fondatore dell’impero persiano. Così si esprime il padre Cambise, istruendo il figlio sul modo migliore di comportarsi:

“Chi comanda deve mostrare di saper resistere più dei suoi sottoposti al caldo in estate, al freddo in inverno, alle fatiche quando c’è da faticare: sono cose che contribuiscono ad assicurargli l’affetto dei sottoposti” (Senofonte, Ciropedia, V, 6). Il messaggio è semplice e diretto e la spiegazione continua illustrando le motivazioni alla base di queste raccomandazioni:

“Devi sapere che uguali fatiche non sono ugualmente gravi a chi comanda e al soldato semplice anche se hanno la stessa corporatura: il prestigio che gli viene dal grado e la stessa consapevolezza che le sue azioni non passeranno inosservate alleviano in qualche misura le fatiche a chi occupa un posto di comando” (ibid.). Ciro, il sovrano capace di estendere i confini del suo regno e di garantirne la stabilità grazie a una politica fondata sul rispetto e sulla tolleranza, mostra di avere imparato già in tenera età la lezione. Così si rivolge al padre, riferendosi ai suoi amici:

“Credono che chi comanda si debba distinguere da chi è sottoposto per pasti più lauti, maggior copia d’oro nello scrigno, sonni più prolungati, insomma per uno stile di vita più agiato; per me, al contrario, chi detiene il comando si dovrebbe differenziare da coloro su cui lo esercita non già nella mollezza del vivere ma nella preveggenza e nell’attitudine a sopportare la fatica” (ivi, vi, 7). Certamente non possiamo dimenticare che si tratta di un’opera che mostra tratti di agiografia, con la chiara finalità di illustrare un modello ideale di sovrano, ma appare interessante vedere come l’importanza di questi valori fosse già chiara nei tempi antichi.

Altrettanto consapevoli dell’importanza di mostrarsi parte del gruppo erano tre grandi condottieri dell’antichità, Alessandro, Annibale e Cesare, cui lo storico Barry Strauss dedica un interessante ritratto:

“Possedevano quelle doti particolari che colpivano gli altri a un livello emotivo profondo. Più dell’abilità oratoria, che pure contava, c’era il gesto semplice ed eloquente. Vedere Annibale dormire in terra con i suoi uomini avvolto nella mantella (Livio, 21, 4), o Alessandro rifiutare un elmo pieno d’acqua nel deserto, perché i suoi soldati erano assetati, o Cesare dormire nel portico di una capanna requisita, affinché l’amico Oppio potesse riposare all’interno – sono scene che ispiravano fiducia ai soldati più di cento discorsi» (Strauss, 2012, trad. it. pp. 17-8).
Tutti e tre mostravano con forza la loro voglia di essere come gli altri e rappresentavano con il proprio comportamento il tipo di atteggiamento che si aspettavano dai loro uomini:

“Combattevano nel folto della mischia. Era pericoloso: durante l’invasione dell’impero persiano, si dice che Alessandro subì sette ferite, di cui almeno tre non lievi, e contrasse una grave malattia da cui guarì. Ma rischiare era efficace, perché un generale che condivideva i pericoli con i suoi uomini ne conquistava il cuore” (ivi, p. 19).

Nei loro comportamenti manifestavano la volontà di conquistare con il consenso l’adesione del gruppo, sebbene avessero a disposizione anche strumenti di coercizione: “Ricorrevano a onori e premi in denaro per incoraggiare l’eroismo. […] Erano generosi e volevano che tutti lo sapessero: poco tenevano per sé dei saccheggi e quasi tutto distribuivano agli amici. Quando si trattava delle loro truppe migliori, facevano tutto il possibile per contenere al minimo le vittime. E contemporaneamente assicuravano i soldati che, nell’eventualità del peggio, la vedova e gli orfani avrebbero goduto di ricchi sussidi. […] Certo non mancavano le punizioni, dalla bastonatura alla condanna a morte – stiamo pur sempre parlando di un esercito con un’organizzazione molto gerarchica – ma colpisce che anche in una struttura di questo tipo la motivazione positiva avesse un ruolo importante. Non bastava il comando, la persuasione era fondamentale” (ivi, p. 18).

In un testo di consigli per i governanti il filosofo greco Plutarco è chiaro e sottolinea il tema. Il buon politico – suggerisce – non cerca di farsi notare con ostentazioni di lusso e raffinatezza, ma “si mostra simile agli altri, nel vestire suo e della moglie, nel tenore di vita, nell’educazione dei figli: come uno, insomma, che si metta nei panni del popolo e viva conformemente a lui” (Plutarco, Consigli politici, 31).
Potremmo continuare con gli esempi ma credo che il punto sia chiaro: spesso nella storia i leader si sono mostrati vicini al gruppo per suscitare in modo più pieno e autentico l’adesione e la partecipazione dei suoi membri. Vedremo a breve perché.

Prima però sgombriamo il campo da un equivoco. Non si può pensare che uno stile di vita sobrio sia automaticamente indizio di una buona leadership. Spesso i tiranni hanno abitudini semplicissime: “la loro sete di potere assoluto riesce ad assorbire o a sviare l’impulso verso i comuni lussi e divertimenti – l’immagine pubblica “spartana” di Robespierre, Stalin, Hitler, Mao, Castro, Bin Laden e altri (autentica o meno) sembrava voler confermare la loro abnegazione e l’impegno per una giusta causa” (Newell, 2016, trad. it. p. 29).

Come racconta lo storico Waller R. Newell nella sua accurata ricostruzione storica della tirannide, alcuni fra i dittatori più crudeli della storia proiettavano volutamente un’immagine pubblica rigorosa. In sintesi, mostrarsi vicini alle persone aiuta a essere riconosciuti come leader ma non significa necessariamente essere un buon leader.

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