Dalla negazione in Occidente del genocidio di massa voluto da Stalin negli anni Trenta alla tiepidezza odierna nella comprensione delle ragioni di Kyiv: le democrazie non vanno mai equiparate alle dittature
Se non fosse stato per un giovane eroico giornalista gallese, Gareth Jones (1905-1935), il mondo non avrebbe mai saputo, negli anni Trenta del secolo scorso, del genocidio per fame (Holodomor) provocato da Josif Stalin (1878-1953) in Ucraina tramite la requisizione di tutto il grano colà prodotto. La decisione del dittatore sovietico era funzionale a due obiettivi: fiaccare l’opposizione dei contadini alla collettivizzazione forzata introdotta, nell’Urss, dopo la mini-apertura al mercato voluta da Vladimir Ilic Lenin (1870-1924) con il varo della Nep (Nuova politica economica); finanziare, attraverso la vendita, all’Occidente, dei raccolti agricoli ucraini, i programmi di industrializzazione pesante previsti dai piani quinquennali del Cremlino. Risultato della confisca alimentare: un’ecatombe nella nazione già definita granaio d’Europa. Gli storici oscillano da un minimo di quattro milioni di vittime a un massimo di nove.
All’origine dell’odierna strenua resistenza degli ucraini contro l’invasione avviata dall’esercito di Vladimir Putin figura, innanzitutto, la narrazione orale inter-generazionale tramandata dai superstiti dell’Holodomor e, comprensibilmente, proseguita fino ad oggi. Troppo crudele, troppo disumana fu la dismisura di Stalin ai danni dell’Ucraina per poter essere archiviata come incidente di percorso nell’edificazione del socialismo o per poter essere, successivamente, storicizzata in nome di una distensione politico-militare vantaggiosa per tutti. Anche perché Mosca non ha mai pronunciato alcun atto di contrizione al riguardo, né, strada facendo, ha mai inviato le sue scuse ufficiali al governo di Kyiv. Il che, specie dopo la guerra in corso da febbraio 2022, ha vieppiù contribuito a radicare nella gente d’Ucraina un sentimento, anzi un risentimento, anti-russo destinato a protrarsi chissà fino a quando.
Oggi, per fortuna, l’Ucraina non rischia il bis dell’Holodomor di 90 anni or sono. Ma se la guerra dovesse durare a lungo, il calcolo conclusivo dei costi per la nazione guidata da Volodymyr Zelensky sarebbe scandito da cifre sempre più sconvolgenti, sia in termini di vite umane spezzate da contare, sia in termini di ricadute socio-economiche da affrontare, sia in termini di quattrini da trovare per destinarli alla ricostruzione post-bellica. Eppure, nemmeno questa semplice e ovvia constatazione è sufficiente a ricompattare le élites intellettuali dell’Occidente nel sostegno pieno alla Causa e alla Resistenza dell’Ucraina. Non siamo, nei confronti della tragedia del popolo ucraino, agli scandalosi livelli di indifferenza e di negazione raggiunti durante l’Holodomor, ma non siamo neppure ai livelli di compartecipazione e di comprensione, per le ragioni dell’aggredito, che l’agguato da parte di una potenza imperiale richiederebbe e/o meriterebbe.
Anche il prode Gareth Jones non fu ritenuto credibile quando, con estrema fatica, riuscì a pubblicare, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, il suo reportage sulle efferatezze staliniane in Ucraina. Gli editori occidentali gli chiusero le porte, pressoché al gran completo. Gli intellettuali e i colleghi giornalisti lo bollarono come visionario a caccia di falsi scoop e di colpi sensazionalistici, contrapponendogli la figura, a loro giudizio assai più attendibile, di Walter Duranty (1884-1957), corrispondente da Mosca per il New York Tmes, nonché amico e adulatore di Stalin. Duranty sposò la linea di Baffone sui grandi processi costruiti a tavolino nel periodo del Grande Terrore, minimizzò le condizioni di capillare arretratezza della società sovietica, negò lo sterminio per denutrizione pianificato contro il popolo ucraino, la cui disperazione sfociò addirittura in casi di cannibalismo anche all’interno delle singole famiglie. L’endorsement a favore di Stalin, oltre a garantirgli nella capitale russa un tenore di vita degno di un big della nomenklatura sovietica, o di un habitué del jet-set internazionale, procurò a Duranty il riconoscimento più prestigioso nel giornalismo anglosassone: il Premio Pulitzer. Premio che non gli sarà revocato neppure quando emergerà la verità, e cioè che, egli, Duranty, aveva sistematicamente sottaciuto, nelle sue corrispondenze dall’Est, le atrocità commesse sotto il regime staliniano. Soltanto il britannico George Orwell (1903-1950) prestò invece fede ai racconti del coraggioso Jones, racconti che ispireranno a Orwell il romanzo allegorico La fattoria degli animali e quel capolavoro di fantapolitica anti-totalitaria intitolato 1984. Il resto dell’intellettualità europea, nisba. Si schierò, quasi tutta, con il collega bugiardo e, a breve, sbugiardato. Per tutta risposta, Jones, la cui vicenda è ricordata nel film L’ombra di Stalin (2019) della regista polacca Agnieszka Holland, pagherà con la vita, ucciso in Cina a soli 30 anni (quasi certamente per mano di un sicario del Grande Fratello moscovita), la sua intransigenza in difesa della libertà e della verità.
Oggi, grazie alla rivoluzione mediatica, non sarebbe possibile e neanche immaginabile la programmazione di una carestia di massa. Idem il suo occultamento comunicativo al resto del mondo. E, però, ora è possibile, grazie alle sottili e sempre più sofisticate armi della propaganda, manipolare all’infinito la realtà, inondarla di così tante falsità, da ribaltare la verità proprio come riusciva a fare lo spregiudicato Duranty. C’è un solo criterio per non sbagliare quando ci si trova nella situazione di dover prendere posizione su una sfida bellica tra nazioni: esaminare la tipologia dei relativi sistemi politici in lotta. Democrazie e dittature non vanno mai giudicate alla stessa stregua. Le prime contano le teste, le seconde spesso le tagliano. Anche il bravo Jones non era avaro di contestazioni al modello anglo-americano. Ma quando si ritrovò nell’inferno staliniano, non ebbe esitazioni nel denunciarne la spietatezza, anche se i suoi articoli risultavano poco graditi ai governi occidentali medesimi, preoccupati per la tenuta dei loro rapporti con il padre padrone sovietico.
Le democrazie non aggrediscono mai, come già aveva spiegato il liberale Alexis de Tocqueville (1805-1859). La qual cosa non è poco. E comunque, aggiungeva il grande politologo francese, le democrazie sanno resistere bene agli attacchi militari sferrati dai dispotismi perché possono contare sull’adesione-mobilitazione popolare che di solito fa difetto agli autoritarismi. Il cliché tocquevilliano è, per certi versi, riandato in scena anche in Ucraina. Il che si è rivelato sùbito incoraggiante. Ma non basta. Oggi le guerre si combattono innanzitutto sul terreno della comunicazione e delle consustanziali/collaterali manipolazioni. Terreno dove, purtroppo, abbondano, in Occidente, gli imitatori del cinico Duranty mentre scarseggiano gli ammiratori dell’onesto Jones. E anche sotto questo aspetto la storia si è ripetuta e continua a ripetersi in Ucraina. Ovviamente come tragedia, avrebbe chiosato Karl Marx (1818-1883).