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La miscela di cultura e politica dietro il Fattore K made in Usa. Scrive De Tomaso

I cento anni di Henry Kissinger, rara figura di intellettuale e statista: le ragioni di una longevità non solo anagrafica. Pensiero e azione, idealismo e realismo al servizio della stabilità mondiale. Il commento di Giuseppe De Tomaso

 

In occasione dei cento anni di Henry Kissinger, Formiche dedica uno speciale all’ex segretario di Stato degli Stati Uniti d’America, raccogliendo contributi e riflessioni su una delle personalità più influenti del Novecento

La figura dell’intellettuale salito ai vertici del potere politico è più rara di una pietra preziosa. Intellettuale e uomo di governo era Caio Giulio Cesare (100-44 avanti Cristo). Intellettuale e politico di rango era il suo semi-oppositore Marco Tullio Cicerone (106-43 avanti Cristo). Ma questi due fuoriclasse della cultura e della politica di Roma antica sono la classica eccezione che conferma la regola. Anche perché buona regola vorrebbe che cultura e poteri viaggiassero su binari distinti e distanti, per la semplice ragione che ogni intellettuale dovrebbe aspirare alla libertà, all’originalità di pensiero e alla sconfessione dei luoghi comuni, non già alla conquista del comando, che di per sé richiede, machiavellianamente imparando, più astuzia di una volpe e più forza di un leone. A proposito: proprio Niccolò Machiavelli (1469-1527), il più celebre precettore di prìncipi a lui contemporanei e postumi, quando giocò in proprio nell’agone del potere fiorentino, collezionò più sconfitte e delusioni dell’odierna Juventus, segno che si può insegnare la scienza della politica, l’arte del governo, ma, simultaneamente, rivelarsi cattivi allievi di sé stessi. Appunto: un conto è formare-informare, un conto è agire, fare. Anche per questa ragione è prevalsa, nel corso dei secoli, la figura dell’intellettuale militante anziché la figura dell’intellettuale governante.

Per restare in Italia, esempi di intellettuali militanti furono, nel Risorgimento, Giuseppe Mazzini (1805-1872), Vincenzo Gioberti (1801-1852) e Carlo Cattaneo (1801-1869), che si limitarono a lambire i posti di responsabilità politica. Più tardi, fiorirà il prato degli intellettuali organici, prima sedotti dalla rivoluzione bolscevica e successivamente inquadrati da Antonio Gramsci (1891-1937) come commessi del Moderno Principe (Il Partito Comunista). Tuttora, non solo in Italia, la sagoma dell’intellettuale militante o dell’intellettuale organico, per nulla scomoda verso il potere, è tutt’altro che isolata o minoritaria sulla scena della letteratura politica. Certo, essa è una figura più mimetizzata rispetto al recente passato, grazie anche a un provvidenziale maquillage terminologico. Cassate, archiviate le definizioni di intellettuali militanti e di intellettuali organici, da qualche lustro circola l’etichetta di intellettuali d’area (o di riferimento), escamotage lessicale assai più tenue e profilattico.

E comunque, per tornare a bomba, per riprendere cioè il filo del ragionamento iniziale, partito dalla singolare peculiarità binaria (essere uomini di potere e intellettuali) di Cesare e Cicerone, occorre prendere atto che oggi bisognerebbe ricorrere al lanternino per scovare gli eventuali emuli dei due classici della latinità. In Italia, nisba. Non se ne intravvedono le tracce. Nel mondo, invece, solo un nome può ambire al rango di “venerato maestro” sia nelle stanze del potere politico sia negli scaffali delle biblioteche di alta politologia. È Henry Kissinger, l’ex segretario di Stato Usa, la cui lezione è stata dettagliatamente esaminata e dibattuta su Formiche, da pochi giorni entrato nel club forse più invidiato del pianeta: quello degli esseri umani con più di un secolo di vita sul groppone.

Non solo non ha mai smesso di sfornare poderosi scritti mentre svolgeva la funzione di architetto ed esecutore diretto della diplomazia americana, ma Kissinger ha avuto la fortuna (o il merito) di coniugare pensiero e azione, adeguando la sua quotidiana strategia governativa alla sua teoria sulle relazioni internazionali, più volte auspicata e illustrata nei suoi numerosi libri. E ancora. Kissinger ha avuto la fortuna (o il merito) di contare parecchio, politicamente parlando, anche dopo aver lasciato gli incarichi ufficiali nell’amministrazione Usa. Fa fede, in proposito, l’accoglienza, degna di un capo di Stato, tributatagli da svariati lustri pressoché ovunque, in occasione delle sue visite nelle capitali della Terra. Tuttora, da centenario in perfetta forma, Kissinger viene consultato alla stregua di un oracolo, e le sue opinioni, le sue direttive, va riconosciuto, spesso risultano più acute, realistiche e lungimiranti di molte analisi concorrenti.

In fondo, la geopolitica l’ha inventata lui. L’ha argomentata lui la necessità di dare vita a un nuovo ordine mondiale, sulla falsariga del trattato di Vestfalia (1648) e del congresso di Vienna (1815). L’ha sostenuta e l’ha promossa lui la strategia dell’attenzione nei confronti della Cina, strategia scaturita dal triplice obiettivo di rendere duratura la stabilità (premessa di pace) globale, di ridurre l’influenza sovietica e di riconoscere, appunto, il protagonismo di Pechino.

E se il grande filosofo-politologo francese Raymond Aron (1905-1983) avvertiva che molti uomini di governo fanno la storia, ma non conoscono la storia che fanno, viceversa lo studio della Storia dell’umanità, a partire dalla fondamentale opera di Tucidide (460-395 avanti Cristo), sembra dire Kissinger, può rivelarsi più utile di una folgorazione divina, dal momento che gli schemi tipici del realismo-idealismo politico sono più inossidabili dei migliori acciai. Ergo, guai a rinunciare ai progetti strategici, concepiti soprattutto facendo propri gli ammaestramenti del passato. Guai a sottovalutare l’importanza delle leadership, precondizione ineludibile per risparmiare agli Stati e alla comunità internazionale periodi di pericolosa anarchia, incertezza e confusione.

Non si comprende appieno il Kissinger statista senza studiare in dettaglio il Kissinger saggista. Il politico e l’intellettuale, in quello che fu assai più del braccio destro di Richard Nixon (1913-1994), si reggono e si spiegano con reciprocità. Nascono da questo incrocio l’originalità e la longevità (non solo anagrafica) del Fattore K versione Usa, ossia del Fenomeno Kissinger. Nascono dall’accoppiata (sporadica nelle stanze dei bottoni) tra politica e cultura. Nascono dalla dichiarata asserzione kissingeriana che realismo e idealismo non sono inconciliabili e che la loro miscela rappresenta il lievito più sperimentato della politica-politica. In fondo che cos’è e cos’è stata la politica estera americana se non un andirivieni tra l’idealismo wilsoniano e il realismo rooseveltiano (di Theodore, non di Franklin Delano). Realismo che portava il suo artefice, Theodore Roosevelt (1858-1919), a sottolineare che “le nostre parole devono essere giudicate in base alle nostre azioni” e che “l’America parla gentilmente, ma porta con sé un grosso bastone”.

Nell’ebreo-tedesco-americano Kissinger coesistono il top della cultura politica europea e l’eredità più profonda dei valori fondanti degli States. Cultura e valori al servizio di una visione del mondo che per molti decenni ha garantito condizioni di pace e di cooperazione internazionale. Ecco perché non resta, per ora, che incrociare le dita mentre vacilla l’ordine mondiale agognato da Kissinger. Ma dov’è l’alternativa?



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