Dobbiamo sostituire la nostra specializzazione nell’inseguire sempre le emergenze con la prevenzione fatta di opere, interventi, formazione ed educazione alla gestione del rischio. L’ennesima lezione dall’Emilia Romagna ci dice che non va perso neanche un minuto per voltar pagina, e che serve istituire una struttura di missione permanente per il contrasto al dissesto idrogeologico che vada oltre i cicli della politica
L’emergenza infinita sta colpendo da giorni e duramente i fragilissimi territori montani e collinari dell’appennino emiliano con un numero impressionante di frane e smottamenti e l’immensa pianura dalla Bassa Romagna alle Marche, mosaico di paesi e città sommersi e martellati da valanghe d’acqua dal cielo e da terra con l’esondazioni di una miriade di rii e 21 tra torrenti e fiumi. Una devastazione mai vista negli ultimi decenni, con un’area colpita così vasta e in queste dimensioni.
In pochi giorni è piovuta l’acqua che può cadere anche in un anno e su terreni fini inzialmente seccati da oltre un anno di siccità e che la respingono più che assorbirla lasciandola dilagare e poi, diventando molto saturi non l’assorbono. E la pioggia solleva i corsi d’acqua dal quasi zero idrometrico a 5 o 6 metri di altezza dando alle loro discese verso il mare una terrificante potenza esplosiva e superando gli alvei.
L’ampia fascia tra la Romagna e le Marche è un elenco di sofferenze, con 9 annegati e finora oltre 13.000 evacuati, strade e ferrovie allagate e bloccate da Bologna che ieri ha subìto l’allagamento del torrente Ravone intombato a Faenza, Forlì, Riccione e la costa con reti fognarie in tilt, scuole chiuse e “zone rosse” in aumento in una regione in grandi difficoltà, irriconoscibile. I sindaci continuano a lanciare appelli a non mettersi in macchina e a salire e restare nei piani alti. Anche a Senigallia, con l’incubo di una nuova piena del fiume Misa.
È l’ultimo tragico bollettino dell’ultima emergenza tuttora in corso, nuove angoscianti scene di devastazioni che si aggiungono alla nostra diffusa, ma molto rimossa, Spoon River da dissesto idrogeologico. È l’Italia, tra i territori più fragili del mondo che riesce a passare in poche ore dall’allerta rossa per la poca acqua al dramma della troppa acqua.
E come Giano, l’antica divinità bifronte dell’odi et amo. Ma è il solo ultimo avviso di quanto siamo ormai sotto i colpi di un clima tropicalizzato con eventi che ci ostiniamo a considerare “estremi” quando ormai sono sempre più ordinari e lo vediamo con la sequenza di uragani che spazzano via litorali, nubifragi con alluvioni lampo o temporali autorigeneranti che gonfiano fiumi all’inverosimile, tempeste che stravolgono territori, erosioni costiere, mareggiate.
Dovrebbe essere chiaro a tutti che la nostra è una penisola-catalogo di grandi rischi naturali e meteo-climatici per collocazione geografica in un Mediterraneo dove le temperature corrono a una velocità del 20% superiori alla media globale, ma non lo è. Dovrebbe essere ancora più chiaro che per due terzi l’Italia è fatta di montagne e di colline geologicamente “giovani” con terreni argillosi e sabbiosi e tra i più franosi, che hanno la media record di uno smottamento ogni 45 minuti, dove l’Ispra ha censito la cifra record di 628.808 frane attive dalle Alpi alle Madonie sul totale delle circa 750.000 frane dell’intero continente europeo. E i centri funzionali della Protezione Civile stanno monitorando in real time le 2.400 frane più pericolose. Dovrebbe anche essere chiaro che siamo beneficiati dalla più elevata media annua di precipitazioni europea con 301 miliardi di m3, e che conviviamo con il più ricco reticolo di acque con ben 7.494 corsi d’acqua di cui 1200 sono fiumi e tutti sono di natura torrentizia e spariscono se non piove e devastano se piove troppo.
Dovrebbe anche essere chiaro che alle nostre spalle ci sono oltre 5.400 le alluvioni e più di 11.000 le frane che ci hanno colpito negli ultimi 80 anni, lasciandoci circa 6.000 morti, migliaia di feriti, milioni di sfollati e danni in media per 4 miliardi all’anno ogni anno dal dopoguerra ad oggi. E che oggi 7.275 Comuni sul totale dei 7.904, cioè praticamente tutti, hanno aree al loro interno a rischio frane, alluvioni o erosione costiera. Le nostre superfici classificate a pericolosità molto elevata sono vaste per 59.981 km2, il 20% del territorio nazionale con dentro infrastrutture primarie.
E le regioni con più popolazione sotto la spada di Damocle del dissesto idrogeologico sono l’Emilia-Romagna con quasi 3 milioni di abitanti, la Toscana con oltre 1 milione, la Campania con oltre 580mila, il Veneto con quasi 575mila, la Lombardia con oltre 475mila e la Liguria con oltre 366mila. E 1,3 milioni di italiani risiedono in zone ad elevato rischio frane e 6,8 milioni a rischio alluvioni, per complessivi 8,1 milioni di cittadini maggiormente esposti al pericolo, insieme al 14,1% delle industrie nazionali e al 21,1% dei beni culturali.
Descritte queste verità, l’altra verità è che questa nostra elevata rischiosità naturale è enormemente aumentata per la più estesa e tollerata anarchia urbanistica europea, una occupazione di suoli fragili e demaniali nel segno della deregulation. Abbiamo moltiplicato la potenza distruttiva di un evento occupando le aree franose e alluvionali come se vivessimo in un’Italia virtuale, costruendo abusivamente o legalmente – non fa differenza ai fini del rischio – e creando rischi dove prima non c’erano, aggiungendo cemento su scarpate, versanti in frana, alvei di corsi d’acqua nell’abbandono di ogni manutenzione e nell’allergia alle opere di prevenzione. Con spregiudicatezza istintiva, viviamo del resto oggi in località dalla toponomastica “ammonitrice”: Fosso o Fossa, Pantano, Bagnolo, Marana, Pozzallo, Peschiera, Maranella, Stagno, Fontanelle, Padule, Palude, Piscina, Lago, Fiumara, Acquapendente, Acquaviva, Acquafresca, Acquedolci, Acqua Traversa, Rio Fresco, Rio Secco, Rio Corto, Fonte, Canale, Fossato, Riva, Isola, Rotta, Foce, Isola Persa, Morene, Campo, Catino, Mortizza…Nei soli confini di Roma Capitale troviamo indicazioni stradali da brivido di aree densamente urbanizzate come Infernetto, Punta Maledetta, Punta Malafede, via Affogalasino, Isola Sacra, via delle Idrovore, Bagno, Bagnoletto, Settebagni.
I nostri ritmi di edificazione sono unici nel continente e ci hanno fatto balzare dal 2,3% del suolo nazionale occupato da costruzioni in 2000 anni di vicenda storica e fino al 1950, al clamoroso 8,3% di suolo edificato di oggi. Triplicando il consumo di suolo nel flash di appena 7 decenni. Possiamo espandere le città? Certo, ma non su vietatissime aree alluvionali e franose, fuori dai piani regolatori, approfittando dei 3 condoni edilizi, più il quarto mascherato con Ischia del governo Conte. Ma si continua a consumare suolo proprio mentre gli effetti del cambiamento del clima mostrano quanto sia cambiato il regime delle precipitazioni che assumono un carattere “esplosivo”. Dai 5 eventi con danni all’anno registrati fino al 1990, siamo passati agli oltre 100 in media di questi ultimi anni, con un aumento vertiginoso di richieste dalle Regioni di Stati di emergenza.
Ecco perché non è più possibile parlare di eventi imprevedibili. Ecco perché dobbiamo sostituire la nostra specializzazione nell’inseguire sempre le emergenze con la prevenzione fatta di opere, interventi, formazione ed educazione alla gestione del rischio.
L’ennesima lezione dall’Emilia Romagna ci dice che non va perso neanche un minuto per voltar pagina, e che serve istituire una struttura di missione permanente per il contrasto al dissesto idrogeologico che vada oltre i cicli della politica. L’opera pubblica più urgente dell’Italia è elencata nell’unico “Piano di contrasto al dissesto idrogeologico” depositato a Palazzo Chigi nel 2019 da “Italiasicura”, la struttura di missione nata dall’idea del “rammendo” di Renzo Piano che ha operato con i governi Renzi e Gentiloni. Contiene tuttora circa 11.000 opere e interventi di varia tipologia – briglie, vasche di laminazione, risagomatura di canali, apertura di canali fluviali intombati, difesa della costa, consolidamento di versanti in frana – per un investimento decennale di circa 31 miliardi di euro.
Italiasicura, in 4 anni di lavoro, con un team di professionisti provenienti da ministeri e protezione civile e con soli due esterni alla Pa, ha dimostrato che un grande Paese come il nostro può farcela a mettere nella massima sicurezza le tantissime aree fragili con tantissimi italiani in pericolo. Il Governo Conte 1 la cancellò insieme al portale che garantiva trasparenza dei cantieri.
Non è fortunatamente riuscito a cancellare alcune riforme e semplificazioni che vanno utilizzate oggi. Tutti i presidenti di Regione sono rimasti “Commissari di Governo per gli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico”. La sburocratizzazione nel decreto “Sblocca Italia” del 2014 che ha permesso di riaprire molti cantieri bloccati rendendoli “no stop” dopo la gara anche in caso di ricorsi, e di aprirne molti altri grazie agli atti dei presidenti-commissari che, con “dichiarazione di pubblica utilità”, sostituiscono “visti, pareri, autorizzazioni, nulla osta e ogni altro provvedimento abilitativo necessario”. Nuove linee guida non permettono più di intombare corsi d’acqua.
La dimostrazione di quel lavoro sono i grandi cantieri, ormai in via di conclusione, con i più grandi investimenti europei per contrastare le alluvioni in grandi aree urbane, che procedono con i ritmi giusti: circa 500 milioni di euro per 8 grandi progetti per difendere Genova, 120 milioni per le casse di espansione lungo l’Arno per tutelare la Toscana centrale, 120 milioni per salvare dalle piene del Sevevo Milano e l’hinterland. Sono stati 1.445 i cantieri chiusi e riaperti e i nuovi cantieri, moltissimi con costi anche minimi, per un totale di 1,4 miliardi investiti. Era tutto verificabile. Per la prima volta, infatti, lo Stato permetteva a qualsiasi cittadino di cliccare sul sito del governo e “visitare” il portale di Italiasicura localizzando il suo cantiere geo-referenziato, corredato di dati, stato di avanzamento, e anche di video e “selfie” di operai e tecnici. Trasparenza totale.
Le risorse? Con i ministri Galletti, Delrio e Padoan furono ritagliati 8,4 miliardi di euro per il piano decennale. Chiusa Italiasicura, quei fondi sono rimasti non spesi, e sono ricomparsi nel Pnrr alla voce “Contrasto al dissesto idrogeologico”. Sarebbero sempre utilizzabili come un buon budget di partenza.