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Serve più coraggio nella risposta alla Via della seta. Scrive Vlahutin (Gmf)

Di Romana Vlahutin

Il Global gateway è un inizio importante per tracciare le basi di una nuova strategia, ma è stato “parcheggiato” nel contenitore istituzionale che va sotto il nome di assistenza allo sviluppo. Per affrontare anche solo una parte di questa sfida, l’Ue dovrà essere coraggiosa. Se vogliamo muoverci in modo strategico e mirato questa impostazione deve essere ripensata. L’intervento di Romana Vlahutin, distinguished fellow for geostrategy al German Marshall Fund, pubblicato sul numero di maggio della rivista Formiche

Pochi anni dopo il lancio del progetto Belt and road (Bri) da parte della Cina, è diventato chiaro che gli investimenti in infrastrutture critiche non sono solo uno sfogo per la sovrapproduzione cinese, ma una precisa strategia di pressione nella mappa delle rotte commerciali e delle catene del valore globali, che crea un enorme guadagno per Pechino in termini geopolitici. Grazie alla Bri la Cina non solo ha aperto nuovi mercati per i propri prodotti, ma ha reso i Paesi di destinazione sempre più dipendenti dalle proprie politiche. Il defunto primo ministro giapponese Shinzo Abe è stato il primo a capirlo e già nel 2015 ha lanciato la sua Iniziativa per infrastrutture di qualità; a questo progetto è seguito poi il Build act degli Stati Uniti e la Strategia per la connettività dell’Ue nel 2018, tutti progetti nati come alternativa agli investimenti infrastrutturali cinesi.

Negli anni del lancio della Bri, la comprensione europea del problema era in qualche modo accademica, con la speranza di fondo che essere un leader normativo sarebbe stato sufficiente per mantenere la propria influenza nei Paesi in via di sviluppo. Inoltre si credeva ancora nel mantra politico del “cambiamento attraverso il commercio” con una scarsa comprensione del fatto che le catene del valore sono uno degli strumenti più potenti della politica di sicurezza globale del XXI secolo. La pandemia prima e l’aggressione russa all’Ucraina poi hanno provocato profondi cambiamenti nella percezione dei rischi e delle interdipendenze.

Questi eventi, nell’Unione europea, hanno quasi istantaneamente reindirizzato gli orientamenti politici ed economici, che per decenni si erano basati sull’asse est-ovest e sull’ambizione di sfruttare le opportunità commerciali fornite dall’est per la crescita economica dell’ovest. L’aggressione russa all’Ucraina ha tagliato quell’asse. La guerra ha anche fatto sì che l’Europa ripensasse alle proprie dipendenze dalla Cina nel lungo periodo. La strategia dell’Europa è orientata oggi verso il corridoio nord-sud e, il Mediterraneo, ancora una volta nella storia, sta diventando un bacino-chiave, riaprendo vecchi corridoi e creandone di nuovi verso l’Africa, il Medio Oriente e l’India.

Oggi questi corridoi sono fondamentali per la prossima generazione di infrastrutture, dalla produzione di idrogeno in Egitto alla capacità del Marocco di produrre batterie e veicoli elettrici, dalla sicurezza delle risorse alimentari e idriche di base dell’area Mena a una nuova rete di legami e relazioni inimmaginabili fino a pochi anni fa. Il fabbisogno di infrastrutture nei Paesi in via di sviluppo è enorme, stimato in circa 2,5/3 trilioni di euro all’anno. Per affrontare anche solo una parte di questa sfida, l’Ue dovrà essere coraggiosa. Il Global gateway è un inizio importante per tracciare le basi, ma è stato parcheggiato nella scatola istituzionale dell’assistenza allo sviluppo.

Se vogliamo muoverci in modo strategico e mirato, alla velocità necessaria, questo contenitore deve essere ripensato. Il fatto che i nostri partner siano Paesi in via di sviluppo non significa che l’assistenza allo sviluppo debba essere l’unico o il principale strumento di scelta, con le sue lunghe procedure, il suo approccio frammentato, le sue nicchie nazionali e la sua burocrazia. Creare nuove rotte commerciali e catene del valore con i nostri partner nei Paesi in via di sviluppo richiede un nuovo modo di guardare ai processi, in una comprensione onesta e trasparente di una relazione transazionale.

I leader di quei Paesi chiedono da tempo investimenti diretti e ciò offre l’opportunità di concordare le nuove regole d’ingaggio, ad esempio un ambiente normativo e una serie di condizioni e standard come prerequisiti perché le imprese europee investano sempre di più. Questo approccio ha maggiori possibilità di essere compreso e accettato rispetto a qualsiasi ambizione di esportare modelli sociali attraverso una narrazione piuttosto paternalistica. I Paesi in via di sviluppo hanno un bisogno esistenziale di una transizione verde globale, dato che sono anche i meno responsabili ma i più colpiti dal cambiamento climatico. La transizione digitale può garantire un salto di due generazioni nello sviluppo, se fatta in modo corretto.

La posta in gioco per i Paesi in via di sviluppo è enorme e loro ne sono ben consapevoli. Il partner nazionale-chiave per i responsabili politici dell’Ue è il capitale privato (europeo): la domanda di infrastrutture di nuova generazione è tale che i fondi pubblici sono ben lungi dall’essere sufficienti. Le imprese europee hanno capito che la geopolitica sarà una parte inevitabile della loro pianificazione aziendale per molti anni a venire e che la diversificazione e il de-risking caratterizzeranno i modelli di investimento.

Questo significa essenzialmente un cambiamento fondamentale della posta in gioco per tutte e tre le parti coinvolte nel processo: i Paesi che hanno bisogno di investimenti, il settore privato che ha una capacità di tale portata e velocità e la politica che negozia le regole, comprese le norme e gli standard, ma anche gli elementi di de-risking finanziario e di sicurezza. C’è un fatto che definirà questa relazione più di ogni altra cosa: le persone e la capacità di innovare.

L’elemento-chiave a cui l’Europa deve pensare è che è vecchia: l’età media è di 44,4 anni. In Africa l’età media è di 19 anni, in Medio Oriente di 22 anni e in India di 28,4 anni. Esiste una sorta di regola secondo cui bisogna diventare ricchi prima di diventare vecchi. L’Europa è ricca, ma questa ricchezza è sostenibile? Le nuove tecnologie, le nuove infrastrutture, la nuova economia avranno bisogno non solo di una forza lavoro generica, ma anche di livelli massicci di innovazione e curiosità. Il futuro ha bisogno di giovani. È nell’interesse della prosperità, sia nei Paesi in via di sviluppo sia in quelli europei, investire nell’istruzione di alto livello e nelle competenze del futuro. La connettività umana è un prerequisito per rendere stabile il cambiamento strutturale portato dalla quarta rivoluzione industriale. L’infrastruttura fisica è una preziosa arma vincente.

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