Nero, marrone, grigio, blu, verde: oggi si potrebbe sfruttare l’idrogeno già prodotto con processi controllati o non impattanti nell’attesa di affinare le tecnologie che saranno in grado di lavorare senza eccessivi costi oltre ad acqua salata o reflua. L’analisi di Valentina Colucci Fabrizio
Il dibattito sull’utilizzo dell’idrogeno avviato, in modo visionario, negli ultimi anni ha avuto un’enorme eco, o come si direbbe in termini digital, ridondanza, attirando l’attenzione, oltre che degli immancabili speculatori in cerca di facili incentivi, degli esperti di energia, dei tecnologi, delle aziende, della politica, dei decisori istituzionali internazionali, comunitari e nazionali costretti a mettere al centro dell’agenda della decarbonizzazione proprio l’idrogeno.
Lo stesso successo di critica e di pubblico lo ebbe, una decina di anni fa, la trilogia rosa a sfondo sexy della scrittrice Erika Leonard (in arte E. L. James) da cui trae il titolo questo articolo. Già, perché, come si dirà in seguito, anche l’idrogeno è ricco di sfumature di colore.
Nel contesto accennato, la Commissione europea ha stabilito che cosa sia idrogeno verde, quello prodotto dal processo di elettrolisi di acqua “buona”, e quali siano le condizioni in base a cui l’idrogeno può essere considerato verde, chiarendo che gli elettrolizzatori per la sua produzione debbano essere collegati a produzione di “nuova” energia elettrica da fonte rinnovabile.
Per incentivare la catena del valore dell’idrogeno il Piano REPowerEU, di cui l’idrogeno rinnovabile è un pilastro fondamentale, ha stanziato 210 miliardi di euro per il periodo 2022-2027, cui si aggiungono i prestiti previsti dallo Strumento di ripresa e resilienza (Rrf) . Inoltre, con l’obiettivo di sviluppare tecnologie innovative per l’integrazione dell’idrogeno nel settore industriale e della mobilità sostenibile, con particolare attenzione agli utenti finali, la Commissione europea ha anche stanziato nel luglio dello scorso anno, attraverso Ipcei Hy2Tech, altri 5,4 miliardi di euro, cui è seguito, due mesi dopo, Ipcei Hy2Use con un ulteriore aiuto di 5,2 miliardi di euro.
In Italia il Pnrr ha stabilito di investire 2 miliardi per l’impiego dell’idrogeno con la finalità della decarbonizzazione dei settori hard-to-abate oltre ai fondi per l’infrastruttura di erogazione dello stesso. Una copiosa messe di contributi pubblici.
Prima di procedere oltre, è necessaria una premessa ancorché già ampiamente illustrata da tutti gli studiosi: l’idrogeno non è una fonte di energia ma un vettore, il che significa che sulla Terra non si trovi in forma utilizzabile ma combinato ad altri composti come l’acqua, ma anche il petrolio e il gas. Questo significa che, per ottenere la molecola pura H2 e utilizzarla come fonte di energia e non produrre CO2, essa deve essere estratta dai composti in cui si trova attraverso processi che richiedono consumo di altra energia.
Come detto, le disposizioni comunitarie normano l’utilizzo dell’idrogeno rinnovabile ovvero quello prodotto con processo di elettrolisi alimentato da energia elettrica prodotta da fonte rinnovabile. Ora, tale processo, per ottenere 1 kg di idrogeno, comporta l’impiego di 53 kWhe di energia elettrica pulita e 8 Kg di acqua utilizzabile a uso irriguo se non potabile, e non acqua marina o reflua che, altrimenti, dovrebbero essere purificate con processi ancor più energivori e costosi. Qui nasce il vero tema.
L’abbattimento della CO2 e delle altre emissioni climalteranti (quali gli ossidi di zolfo e di azoto, le diossine, le polveri sottili ecc.) che molto più incidono sul cambiamento climatico e ancor più sulle condizioni sociali e sanitarie del pianeta possono compensare l’impiego, qualcuno già sostiene lo spreco, dell’acqua, una commodity preziosa in un futuro già presente?
Un dilemma cui si è posta fino a questo momento poca attenzione ma che riveste un carattere profondamente etico prima ancora che economico e ambientale. Una risposta logica potrebbe discendere dalla presa in considerazione di una transizione verso l’idrogeno rinnovabile, utilizzando l’idrogeno prodotto attraverso altri processi che definiscono convenzionalmente le sfumature di colore di cui si parlava all’inizio di questo articolo.
Vogliamo tralasciare l’idrogeno nero prodotto da carbone, quello marrone da lignite e quello grigio derivante dallo steam reforming del metano pur già massicciamente prodotto nelle lavorazioni petrolifere e chimiche e, quindi, disponibile. Ragioniamo allora sull’idrogeno blu prodotto da gassificazione con Ccus del metano, su quello turchese prodotto dalla pirolisi del metano e su quello giallo derivante dalla elettrolisi da energia elettrica di rete (non potendo aggiungere il tocco rosa dell’elettrolisi derivante da un’energia nucleare poiché non prodotta in Italia).
In conclusione, sulla base dell’assunto che la molecola H2 non abbia passaporto che ne identifichi lo “stato di provenienza”, perché non sfruttare l’idrogeno già prodotto con processi controllati o non impattanti nell’attesa di affinare le tecnologie di produzione dell’idrogeno rinnovabile (magari producendolo solo quando l’energia rinnovabile è in eccesso rispetto all’assorbimento della rete e non sia “altrimenti” stoccabile) oppure quando i sistemi saranno in grado di lavorare senza eccessivi costi ulteriori acqua salata o quella reflua.