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Moro, una rincorsa di 45 anni tra misteri, dubbi e verità. Scrive De Tomaso

Dal riferimento di Mattarella alle deviazioni di Stato agli approfondimenti sulla linea del leader Dc in materia di politica estera e rapporti con il Pci: l’Occidente fu il suo faro. L’opinione di Giuseppe De Tomaso

Di sicuro c’è solo che fu ucciso. Per la fine di Aldo Moro (1916-1978) viene tuttora spontaneo parafrasare, riadattare il celebre incipit (“Di sicuro c’è solo che è morto”) del bravissimo giornalista investigativo Tommaso Besozzi (1903-1964) a proposito del primo controverso mistero (il caso di Salvatore Giuliano) dell’Italia repubblicana. Moro: di sicuro c’è solo che fu ucciso, 45 anni addietro. Quanto al resto, dal rapimento alla gestione del rapimento, tuttora le ombre surclassano le luci, come lasciano intendere le parole di Sergio Mattarella che ha auspicato “la verità sulle gravi deviazioni compiute da elementi dello Stato” nella tragica vicenda dello statista pugliese.

Di sicuro si può dire solo che furono le Brigate Rosse a organizzare l’agguato e la strage di via Fani, il 16 marzo 1978. Anche se, è ormai accertato, i brigatisti non fecero tutto da soli. Si giovarono di proiettili e appoggi forniti dalla malavita, con la non belligeranza (eufemismo) di apparati equivoci nominalmente al servizio (sic) dello Stato. Il che era ed è abbastanza per cercare di fare ancora più luce su uno tra i contesti, per rubare il lessico di Leonardo Sciascia (1921-1989), più torbidi e sconcertanti mai allestiti contra personam. Nel nostro caso, contro il povero Moro. Se poi, a tutto ciò, si aggiunge la strategia internazionale della tensione alimentata in quegli anni di Guerra Fredda tra Est e Ovest, il cerchio si chiude, anche se paradossalmente la trama del sequestro Moro e del suo epilogo in via Caetani non cessa mai di proporre un interrogativo dopo l’altro, come matrioske russe. Interrogativi sempre più inquietanti, tali da evocare la geopolitica mondiale, tali da risultare super-fantapolitica persino per gli amanti della cinematografia di James Bond e/o per l’intera fabbrica editoriale di gialli intercontinentali.

Di Moro, durante e dopo il sequestro, si mormorava che fosse stato, ad un tempo, presuntuoso e ingenuo. Presuntuoso perché, secondo i suoi inflessibili detrattori, avrebbe pensato di potersi affrancare dall’alleato americano senza entrare, cautelativamente, un minuto dopo, nell’orbita, nella protezione, o perlomeno nella comfort zone, di un altro scudiero, fosse pure l’antagonista (sovietico) di zio Sam. Ingenuo perché, sempre secondo i suoi esegeti più severi, Moro avrebbe pensato di non pagare dazio dopo la decisione di non aggregarsi a nessuno dei due super-duellanti in lotta. Bah. Pensare che Moro fosse, contemporaneamente, presuntuoso e ingenuo significherebbe far torto alla sua storia, alla sua psicologia, alla sua cultura e soprattutto alla sua intelligenza. Moro non era né presuntuoso né ingenuo. Moro era semplicemente Moro, un politico così ancorato ai valori dell’Occidente e dell’Europa da sollecitare e solleticare, in Italia, anche il competitore comunista, partito anti-sistema per antonomasia, a sposare la causa della democrazia figlia dei Lumi, e a rompere con il sistema delle democrazie totalitarie imposte dall’Unione Sovietica. Altrettanto impegno, a vantaggio dei diritti umani, dei valori liberaldemocratici e dell’autonomia/autodeterminazione dei popoli, Moro aveva profuso nella Conferenza di Helsinki (1975), che si rivelerà un aiuto prezioso per la dissidenza anti-brezneviana a Mosca.

Moro non era un kamikaze. Né era un pilota aduso a volare di sera a fari spenti e senza paracadute. Se aveva avviato la strategia dell’attenzione nei confronti del mondo comunista, lo aveva fatto a ragion veduta e per due ordini di motivi: spingere anche la sinistra marxista europea ad affrancarsi, sul piano culturale, dalla pluridecennale subalternità all’impero rosso (cioè russo) per sposare la causa della democrazia occidentale, fondata sull’alternanza al potere fra schieramenti che si legittimano a vicenda; sbloccare la democrazia italiana, segnata dal Fattore K (dal russo Kommunizm), formula introdotta  dal grande giornalista-saggista Alberto Ronchey (1926-2010) per spiegare proprio l’origine del mancato ricambio dei partiti di governo in Italia. In soldoni: a causa del Fattore K fino a quando il Pci sarebbe rimasto affiliato alla casa madre di Mosca, l’avvicendamento di forze politiche diverse al governo sarebbe rimasto in Italia un’ipotesi più astratta di un dogma filosofico. Moro apre al compromesso storico, delineato dal segretario comunista Enrico Berlinguer (1922-1984) dopo il golpe militare (1973) in Cile contro il socialista Salvador Allende (1908-1973), per accelerare il processo di occidentalizzazione del Pc. Ma chiarisce sùbito una cosa: dopo la fase di collaborazione, o di consociazione, necessaria alla riscrittura delle regole del gioco, Democrazia Cristiana e Partito comunista sarebbero ritornati su posizioni alternative, realizzando per la prima volta quello stato di democrazia compiuta, di legittimazione reciproca a governare, che caratterizza l’Europa liberale.

È inverosimile ritenere che Moro, pur essendo un gelosissimo custode dell’autonomia del Belpaese sullo scacchiere politico mondiale, non abbia illustrato il suo disegno agli alleati europei ed americani. Del resto, qualcosa di analogo era accaduto, qualche lustro prima, alla vigilia della svolta che diede vita al centrosinistra, quando il presidente John Kennedy (1917-1963) non trovò nulla da obiettare, anzi, all’ingresso dei socialisti nella coalizione governativa romana.

Anche il presidente Richard Nixon (1913-1994) che, a differenza di Henry Kissinger, stimava Moro, non avrebbe avuto nulla in contrario alla strategia di apertura al Pci, strategia che, dal suo punto di vista, era parallela e coassiale alla sua. Nixon puntava, a livello globale, a dividere Unione Sovietica post-staliniana e Cina maoista. E ci riuscì. E di conseguenza a Nixon andava bene il collaterale, concomitante piano di Moro per la cooptazione del Pci (principale partito comunista dell’Europa occidentale) nelle stanze governative dello Stivale perché questa operazione avrebbe provocato la rottura del vecchio sistema internazionalista guidato da Mosca, separando i comunisti occidentali dai comunisti orientali. Una prospettiva che al Cremlino creava più apprensione di una bomba atomica puntata verso il territorio russo e che Moro pagherà con la vita.

E poi. Che il piano di sganciamento del Pci da Mosca fosse arrivato al bivio cruciale, e forse del non ritorno, lo si era capito nel giugno 1976, quando, nella celebre intervista rilasciata a Giampaolo Pansa (1935-2020) sul Corriere della Sera, Berlinguer disse di sentirsi più sicuro dentro l’ombrello Nato che fuori. Parole che se non provocarono più di un infarto tra i gerontocrati del Cremlino, poco ci mancò.

Conclusione. Moro non peccò affatto, né di scarsa lucidità né di insufficiente realismo, nel suo proposito di agevolare e accelerare l’occidentalizzazione dei comunisti italiani ed europei. Né il suo disegno appariva in contrasto (semmai era complementare) con la manovra americana, soprattutto nixoniana, tesa dividere i due colossi collettivisti (Urss e Cina) del tempo. Se, durante i suoi 55 giorni di prigionia nel covo brigatista, Moro avvertì la cortina di isolamento costruitagli attorno dal partito trasversale dell’immobilismo, più che della fermezza, i fili della matassa, cui talora alludeva Moro, andrebbero ricercati altrove, ad esempio nell’eredità di Yalta, nella vicenda mediorientale, negli scontri correntizi di partito, nelle deviazioni di Stato sottolineate da Mattarella, piuttosto che nella presunta imprudenza della vittima nel Grande Gioco del Potere.


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