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A proposito della morte e lo spirito cristiano. La riflessione di Ciccarelli

Di Michele Ciccarelli

Michele Ciccarelli, docente Irc di Sacra Scrittura, Issr Interdiocesano di Capua, riflette sulle parole della scrittrice Michela Murgia, che qualche settimana fa ha affrontato il tema della sua malattia, e le reazioni di Paolo Crepet e di Dacia Maraini

È da qualche settimana che il mondo della cultura italiana ha appreso con sconcerto la notizia della malattia di Michela Murgia, scrittrice e nota critica letteraria, e ha colpito indubbiamente la serenità e il coraggio con cui lei ha sentito il bisogno di comunicarlo a tanti suoi lettori e ammiratori nell’intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo. Si capisce il bisogno di condividere con gli altri la propria vita, magari anche i momenti più drammatici. Non tutti ce la fanno e le reazioni sono diverse, poiché il dolore è un elemento personalissimo e non è mai facile gestirlo o trasformarlo in qualcosa d’altro. Murgia ha provato ad elaborarlo pensando con soddisfazione alla vita piena che ha vissuto e se ci dà pace l’idea di dover lasciare questo mondo senza rimorsi, è facile immaginare una simile sensazione anche per chi muore senza rimpianti.

Al di là delle comprensibili reazioni emotive da parte di molti, mi ha colpito però il commento che ha rilasciato il noto psichiatra Paolo Crepet, il quale ha apprezzato le parole di Murgia perché “ha dato voce ai morituri”, per poi anticipatamente giudicare come affetto da cretinismo chiunque avrebbe osato considerare l’atteggiamento della scrittrice come esibizionismo.

Sentendomi personalmente a riparo da tale giudizio preventivo, ho cercato di riflettere pacatamente sul ragionamento portato avanti prima da Crepet e poi, qualche giorno dopo, dalla scrittrice Dacia Maraini. Entrambi hanno sottolineato il messaggio positivo di vita che Murgia ha voluto condividere, ma, nello stesso tempo, è sembrato loro naturale un confronto con la morte di Cristo in croce che, a detta di Crepet, avrebbe portato il cristianesimo a promuovere l’idea della morte e ad esaltarla come momento redentivo di una vita, che nel passaggio all’aldilà, lascia finalmente la condizione penosa della sua esistenza sulla terra. Dopo aver ricordato che ai suoi tempi “in tutte le classi stava esposto un condannato a morte” egli si chiede candidamente “perché invece non si è scelto un bambinello sorridente”. Infine, facendo riferimento al santo del giorno e pensando che si tratti sempre di un martire, afferma che “ogni giorno si ricorda un morto martoriato”, e conclude: “questa morte come apice della vita rende più importante il modo in cui si muore che quello in cui si è vissuto” (intervista di Nadia Ferrigo a Paolo Crepet, La Stampa, 7 maggio 2023).

Riprendendo il commento di Crepet, Dacia Maraini, in un articolo sul Corriere della Sera, sostiene che Michela Murgia avrebbe dimostrato che ci poteva essere “un distacco razionale” dalla morte e dal dolore considerando la bellezza della vita vissuta e che si vive consapevolmente fino all’ultimo istante, aggiungendo poi che “creare come centro e punto di riferimento della rivoluzione cristiana un uomo morente in croce non ha fatto bene alla nostra cultura”.

Devo confessare, con un certo sconforto, che mi stupisce la superficialità di approccio che porta a tali errate e ingiuste affermazioni, e mi sembra incredibile che siano stati concepiti grazie ad una conoscenza che sembrerebbe derivare, comunque, dal fatto che tutti noi “siamo immersi nella cultura cattolica”. Allora mi chiedo: davvero in duemila anni di cristianesimo l’idea complessiva che se n’è ricavata è che il crocifisso abbia contribuito a diffondere una concezione negativa della vita e abbia promosso una sorta di culto della morte e della mortificazione? Dacia Maraini parla anche di un “totalitarismo religioso”, che imperversava ovviamente prima del secolo dei lumi, dove la “morte dolorosa” era considerata “l’unico atto sacro dell’esistenza umana”. Come riprova di quanto affermato riporta poi la notizia che i mistici e “soprattutto le mistiche, per dimostrare il proprio amore per Gesù, si imponevano di morire di fame”; e questo perché “la morte come espiazione di una vita comunque colpevole è stata per troppo tempo la base di un pensiero condiviso” (cf. D. Maraini, “Esaltare la vita”, in Corriere della sera 8 maggio 2023).

È certo curiosa la definizione di “totalitarismo religioso”, con la quale mi sembra ci si voglia riferire all’antica “societas christiana” che aveva evidentemente assorbito massivamente i princìpi cristiani nel suo complesso e non metteva certo in dubbio l’esistenza di Dio e l’autorità della Chiesa; e risulta totalmente estranea al pensiero cristiano condiviso l’idea di una morte che fungerebbe da espiazione della vita, mentre, al contrario, si sa che il cristiano riconosce già di vivere, grazie a Cristo risorto, un’esistenza redenta e gioiosa.

Ed è anche curioso constatare come si possa confondere quello strumento di dominio di sé e di distacco dal peccato che è la penitenza dell’ascetica claustrale con il desiderio insano di rinuncia alla vita per lasciarsi morire di fame. E allora mi chiedo, forse inutilmente: quale è stato il percorso logico che ha portato ad associare quel crocifisso che ancora troneggia nelle chiese ed è disseminato nei cimiteri, che è affisso nelle nostre aule di tribunale come nelle aule scolastiche o in alcuni ospedali e uffici, che campeggia su tante vette e che incontriamo agli incroci di molte strade di campagna e di città con un’idea triste e negativa della vita terrena, alla quale il cristiano dovrebbe pregiudizialmente rinunciare, allo scopo di proiettarsi unicamente verso la vita dopo la morte?

È mai possibile che a due persone di cultura sfuggano completamente i concetti di offerta di vita, di condivisione solidale, di compassione, di misericordia, di umiltà, di giustizia, di perdono, di riscatto dai propri fallimenti, di risurrezione, di gioiosa speranza in una vita nuova, di resistenza al male, di libertà della coscienza, di coraggio e di conforto che proprio quel crocifisso rappresenta e che, nel contempo, promuove e indica per generazioni e generazioni di cristiani e no? Dobbiamo pensare, allora, che  ancora conserva la sua forza di seduzione il giudizio marxiano della religione “oppio dei popoli”, funzionale al potere che vuole costringere gli sfruttati a non aspirare ad alcuna felicità sulla terra, ma solo a quella del cielo?

In conclusione, penso che, tutto sommato, mi posso anche rassegnare all’incomprensione o alla confusione interpretativa di chi ignora la dinamica spirituale della fede cristiana, ma è difficile rassegnarsi a non riuscire a capire per quale ragione si è sentito il bisogno di contrapporre la serenità delle parole, ritenute “rivoluzionarie”, di Michela Murgia alla rivoluzione cristiana che ha sempre avuto nel crocifisso il paradigma dell’amore senza riserve e il segno della sconfitta definitiva sulla morte e sul male, ogni male, anche quello che minaccia la verità delle cose.

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