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Il ruolo dinamico di un nuovo centro. Lo raccontano Fioroni e D’Ubaldo

Di Giuseppe Fioroni e Lucio D’Ubaldo

I cattolici di destra hanno scelto da tempo “la cura del sonno”, mentre quelli di sinistra sono sempre più in difficoltà a seguito dell’elezione di Elly Schlein alla segreteria del Pd. Ed è per questo che occorrerebbe tornare al “centro umano”, teorizzato da Aldo Moro. L’intervento di Lucio D’Ubaldo e Giuseppe Fioroni

Il richiamo al pluralismo politico come orizzonte del cattolicesimo post conciliare spesso nasconde l’insidia della pigrizia intellettuale. Si dà per scontato che l’unica verità stia nella constatazione della diaspora elettorale. Il resto è adeguamento continuo, ricerca della giustificazione, appunti per memoria: nel migliore o nel peggiore dei casi, a seconda dei punti di vista, si fa menzione del disagio dei cattolici.

È troppo poco, indubbiamente. A forza di ripetere che la Dc non torna più, perché in effetti sono cambiate le condizioni storiche, si finisce nell’iperuranio della “politica dei valori”, senza più aderenza al “valore della politica” in quanto tale, alla sua articolazione concreta (programmi, alleanze, mediazioni). Si scivola così nella banalità, con la conseguenza di disperdere la forza di una vitale tradizione politica.

I cattolici di destra hanno scelto da tempo la cura del sonno. Non parlano e non agiscono, la loro unica ambizione è proteggere la figura di Giorgia Meloni come leader politico e soprattutto come capo del governo. Diverso è il caso dei cattolici che militano a sinistra, principalmente nel Pd, essendo più attenti a maneggiare e proporre le ragioni del loro impegno. Senonché, in questa fase, l’irruzione sulla scena di Elly Schlein complica molto il discorso dell’appartenenza al fronte dei progressisti. Si è rotto l’incantesimo del “partito plurale” del riformismo e si è innescato un processo di trasformazione del partito in senso “neo radicale”.

Noi abbiamo creduto all’opportunità che un partito nuovo riuscisse a rimescolare le carte della storia democratica e riformatrice del Paese, superando i limiti e gli errori  del “secolo breve”. Abbiamo immaginato che unendo il centro progressista e la sinistra democratica potesse scattare la molla di una politica di orientamento sociale e a forte impulso solidaristico. E abbiamo sperato, infine, che nella invenzione di questo coagulo di motivazioni e propositi rigenerativi ci fosse per tutti un incentivo morale alla reciproca comprensione, senza pretese di egemonismi.

Oggi dobbiamo riconoscere che il nuovo Pd non incrocia il disegno di allora, di ciò che si è mosso tra il 2007 e il 2008, quando i Popolari sciolsero i loro ultimi ormeggi. È un altro partito, più angusto e più debole; un partito in ginocchio di fronte al popolo delle primarie, con la smentita della propria militanza; un partito, in fondo, che si è lasciato umiliare e da questa umiliazione ricava lo stimolo a un di più di freschezza e di aggressività, supponendo di vincere sulla scorta di una politica onnivora di diritti individuali. Onestamente, a questo declino non si confà l’estremo servizio del cattolicesimo democratico: diventa persino lezioso ricamare sulle fragilità che hanno caratterizzato, e continuano evidentemente a caratterizzare, le scelte di abilità tattica del drappello originariamente popolare.

Tuttavia, si dice, manca l’alternativa. L’attacco che viene infatti dai difensori dello status quo, dentro e fuori il Pd, consiste nella negazione di uno spazio credibile al centro, essendo comunque imprescindibile il riferimento al bipolarismo. I più garbati sollevano il dubbio che la parola centro sia adeguata alla sagomatura di un progetto a impronta cristiana. Anche Moro se ne fece scrupolo, cogliendo tuttavia il nucleo della questione e offrendo da par suo una risposta agli avversari. Lo fece nell’intervento sulla fiducia all’ultimo governo De Gasperi, nel 1953, quando pure fu chiaro che il centrismo scontava il suo precoce logoramento. Moro riconobbe che dire “centro” non era attrattivo, avendo la parola “scarsa carica emotiva”, ma disse di guardare alla sostanza e di tradurre, pertanto, la parola “centro” con la formula di “politica umana”.

Ecco, i cattolici democratici dovrebbero contemplare l’istanza che resiste tuttora nel ragionamento sviluppato 70 anni fa dal più raffinato esegeta della visione democratica e cristiana della società, l’uomo di partito e di governo più conseguente a riguardo della missione storica della Dc. Il centro per Moro era la politica umana, il luogo di composizione di ideali e interessi in funzione del progresso inteso e vissuto secondo giustizia. Dunque, un centro dinamico per il quale passava l’allargamento delle basi democratiche dello Stato, e perciò aperto ad alleanze  conformi, in un quadro di realismo, a un disegno di crescita civile e politica.

Insomma, il centro pensato come politica umana ritorna d’attualità se reso motore di una risposta possibile alle distorsioni e alle minacce del transumanesimo, la più pericolosa contraffazione dell’umanesimo, a cui appare piegarsi l’Occidente e con esso, fatalmente, il mondo intero. Solo questa ripresa di autenticità di un progetto distinto dal neo radicalismo, viziato di astrattezza e finanche di presunzione, ha dentro di sé il potere di rimettere in sesto lo spirito di cooperazione tra le forze del riformismo democratico. Senza questo rilancio del centro, nel quale agisca l’influsso del popolarismo, la democrazia è destinata a irrigidirsi nella logica della pura contrapposizione.

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