Se qualcuno vuole leggere questo viaggio in funzione dell’eredità che il papa vuole lasciare a chi verrà dopo di lui, lo può interpretare anche come uno smarcamento dall’immagine di “progressista” che gli è stata cucita addosso dal primo giorno di pontificato. La riflessione di Agostino Giovagnoli
Il viaggio di papa Francesco in Ungheria – più precisamente a Budapest – è stato un successo. Ma è stato un viaggio complicato. O, meglio, è stato un successo proprio per questo. L’Ungheria è un luogo di contraddizioni – lo era ieri, lo è anche oggi – e Francesco ha scelto di andarvi per affrontarne molte. E ha lanciato messaggi diversi per destinatari differenti, componendoli però in un quadro unitario incentrato sull’Europa e sulla pace.
Appena arrivato a Budapest, non a caso, ha parlato molto di Europa esaltandola come “la memoria dell’umanità” grazie alla sua storia e perciò chiamata oggi “unire i distanti”, “accogliere al suo interno i popoli” e “non lasciare nessuno per sempre nemico”. Sono convinzioni che questo papa argentino ha già espresso altre volte. Ma farlo in Ungheria oggi ha un valore particolare: i rapporti della “democrazia illiberale” ungherese (copyright Orban) con l’Europa non sono affatto idilliaci. Francesco però ha anche criticato un’Europa “gassosa”, “astrattamente sovranazionale”, talvolta addirittura “colonizzazione ideologica”. Insomma, bisogna venirsi incontro per salvare il gran bene rappresentato da un’unità europea che non è contro nessuno come insegnavano i padri fondatori.
Questo papa non esalta le radici cristiane dell’Europa, ma le chiede di ritrovare la sua anima. In concreto, di accogliere chi bussa alla sua porta. A Budapest Francesco ha incontrato i profughi dall’Ucraina, ringraziando gli ungheresi per averne accolti sollecitamente centinaia di migliaia (anche se molti si sono poi trasferiti in Germania o altrove). Ma il calvinista Orban ha respinto duramente tutti gli altri che scappano da guerre o carestie e ha teorizzato che bisogna “difendere” l’Ungheria cattolica dalla “minaccia delle masse musulmane”, esattamente l’opposto di ciò che pensa il papa. Nel suo viaggio Francesco non lo ha dimenticato ed è tornato più volte a ribadire, con toni accorati, il suo “no alle porte chiuse verso chi è straniero, diverso, migrante, povero o non è in regola”. Alla Chiesa cattolica ungherese, che ha fama di essere un po’ conservatrice, ha raccomandato di non chiudersi davanti alle sfide della secolarizzazione e di cogliere le opportunità di evangelizzazione presenti anche nel nostro tempo (mantenendo anche una sana distanza dalla politica). Ai giovani invece di non cedere alla rassegnazione, osare molto e proporsi cose grandi, in particolare per quanto riguarda la pace. A tutti, di mettere i poveri al primo posto.
Tra i motivi principali di questo viaggio c’è stata anche la collocazione, geografica e politica, dell’Ungheria sul versante “orientale” dell’Europa. Lo ha richiamato anche il card. Erdő, arcivescovo di Budapest, nel saluto finale, parlando dell’Ungheria non come spazio attraversato da confini rigidi ma quale area di frontiera dove i diversi coabitano. Al papa è piaciuto e lo ha ripreso. Erdő ha ricordato che il suo paese è stato anche, per un periodo, estremo lembo settentrionale dell’impero ottomano e ha sottolineato in particolare: “Viviamo al confine orientale della cristianità occidentale da mille anni”. Oggi il governo Orban ha un atteggiamento piuttosto soft verso la Russia di Putin (e verso la Cina) e proprio in Ungheria papa Francesco ha avuto un incontro molto significativo con il metropolita Hilarion, già “ministro degli Esteri” della Chiesa ortodossa russa e membro permanente del Santo Sinodo della Chiesa ortodossa russa, ora “solo” amministratore della comunità russo-ortodossa d’Ungheria, dopo aver preso posizione contro la guerra pochi giorni prima dell’aggressione all’Ucraina.
Il dialogo tra la Chiesa cattolica e quella russo-ortodossa rappresenta oggi un nodo cruciale in un tessuto di relazioni ecumeniche essenziale anche per ricucire i rapporti tra Est ed Ovest. Nel viaggio di ritorno, Francesco ha parlato con molto calore di Hilarion e ha affermato, con tranquilla sicurezza, che l’incontro con il patriarca Kirill – rinviato a causa dell’atteggiamento di questi favorevole alla guerra – si farà. Il viaggio in Ungheria, insomma, è stato anche un’occasione per rilanciare in modo non scontato una speranza di pace in Ucraina per la quale, ha rivelato Francesco, è anche “in corso una missione vaticana”.
Se qualcuno vuole leggere questo viaggio in funzione dell’eredità che Francesco vuole lasciare a chi verrà dopo di lui – più prosaicamente: in vista del conclave che eleggerà il suo successore – lo può interpretare anche come uno smarcamento dall’immagine di “progressista” che gli è stata cucita addosso dal primo giorno di pontificato.
Orban rappresenta quelle tendenze populiste e nazionaliste contro cui Francesco ha preso chiaramente posizione anche a Budapest. Ma il premier ungherese ha molti problemi e ha capito che una visita del papa lo avrebbe aiutato come in effetti è accaduto: i riflessi di questa visita sono indubbiamente vantaggiosi per lui. Francesco, a sua volta, deve aver pensato che l’invito del premier ungherese poteva costituire un’occasione anche per far capire che non ha preclusioni verso nessuno. Ha dunque dato una mano ad Orban – gratificandolo anche di un riconoscimento per la sua politica a favore della natalità – ribadendo però per tre giorni anche tutti i temi chiave del suo pontificato.
Tradotto in vaticanese: l’eredità di Francesco non sarà certamente un’eredità conservatrice ma neppure angustamente progressista, sarà piuttosto l’eredità di un’agenda obbligata per chiunque sia eletto papa in un XXI secolo difficile per la Chiesa cattolica.