La proposta di revisione del Patto di stabilità da parte della Commissione europea va vista in un quadro di contraddizioni e di tendenze contrapposte nel faticoso, ma pur progressivo, cammino verso un modello federale europeo. L’analisi di Pasquale Lucio Scandizzo
Dopo un periodo di consultazione pubblica, la Commissione europea ha formalizzato la sua proposta di riforma del Patto di stabilità e crescita (Psc), proponendo una specifica legislazione da sottoporre all’approvazione degli Stati membri.
La riforma è importante per rilanciare l’economia europea lungo un sentiero di crescita sostenibile. Essa è anche cruciale per proseguire nel processo di integrazione, che avanza tra alti e bassi e minaccia di regredire a fronte di uno scenario economico globale di crescente frammentazione. Per analizzare questi processi e avere una idea più chiara della posta in gioco, è utile ricordare che la Commissione europea condivide una posizione di governance in un sistema dinamico di controllo e bilanciamento con altre istituzioni europee e nazionali.
Questo sistema è in continua evoluzione e si adatta al processo di integrazione politica dell’Ue, in cui la Commissione guadagna progressivamente posizione come organo di governo sovranazionale mano mano che il processo progredisce e ha successo nel percorso verso un modello federale europeo. Questo modello a sua volta non è frutto di una formulazione a priori, ma il risultato di una interazione dinamica tra varie forze in gioco, spesso in conflitto tra di loro. Esso tende anche ad adeguarsi al processo di integrazione economico delle filiere industriali europee che ha meno vincoli politici ed è, di conseguenza, molto più avanzato.
La Commissione europea si trova in una posizione complessa. Da un lato essa continua a essere divisa tra l’ampliamento dei poteri effettivi di governo sovranazionale, più vicino all’idea di una progressiva integrazione di tipo federale, e l’incremento dei suoi poteri di regolatore imparziale, che invece sta più a cuore ad alle maggioranze politiche della Germania e dei Paesi nordici. Questo incremento non va nella direzione di un maggior coordinamento delle politiche degli Stati membri, anche ai fini della stabilità finanziaria. Esso continuamente risospinge la Commissione in un ruolo di superburocrate comunitario poco attivo nella promozione dell’interesse generale dell’Ue e nel processo di integrazione, ma pronto ad agitare lo spettro delle sanzioni verso uno o più Stati membri che deviano o si sospetta possano deviare da un sistema di regole comuni.
In questo quadro, la recente proposta della Commissione per la riforma del Patto di stabilità e crescita, nel complesso può essere considerata un miglioramento rispetto al passato, anche perché, dopo un adeguato periodo di consultazione pubblica, essa sembra aver recepito alcuni suggerimenti e proposte dei Paesi interessati, e in particolare dell’Italia. Nel riflettere una dinamica istituzionale europea problematica e di difficile soluzione, la proposta solleva ancora però diverse preoccupazioni in merito all’efficacia delle misure proposte e, più in particolare, all’equilibrio tra poteri discrezionali della Commissione e autonomia degli Stati membri. Alcune delle questioni principali possono essere riassunte nei seguenti punti:
1. La proposta manca di un quadro di riferimento europeo e si concentra troppo sulla regolamentazione restrittiva dell’operato del singolo Paese. Un quadro di riferimento europeo per il coordinamento delle politiche fiscali sarebbe fondamentale per garantire una visione globale e integrata delle sfide e delle opportunità che gli Stati membri affrontano a livello europeo. Tale quadro dovrebbe tener conto della diversità delle economie nazionali, delle differenze strutturali e delle esigenze specifiche di ciascun Paese, ma anche delle interdipendenze sempre più forti che l’integrazione dei mercati e delle filiere industriali ha creato in Europa.
2. Benché la proposta prometta di riconoscere le circostanze economiche uniche e le sfide affrontate dagli Stati membri, questo impegno sembra soprattutto affidato alla buona volontà della Commissione. La proposta appare ancora dominata da un approccio rigido, mirato esclusivamente ad obiettivi di riduzione della spesa pubblica, che tende inevitabilmente a trascurare fattori contestuali quali condizioni economiche, shock esterni e necessità di investimento. Del tutto assenti appaiono specifiche clausole di flessibilità, che prevedano opzioni alternative che i governi possano esercitare a seconda delle circostanze e senza dover ricorrere di volta in volta all’approvazione della Commissione.
3. Mentre la disciplina fiscale è importante, la proposta della Commissione sembra porre un’enfasi eccessiva su misure quali la spesa e il deficit, lasciando problemi quali la crescita economica e le disuguaglianze sociali al limbo della contrattazione bilaterale. Trovare un equilibrio tra la riduzione del disavanzo e le politiche orientate alla crescita è però la sfida fondamentale per garantire risultati di bilancio sostenibili. I paesi ad alto debito come l’Italia richiedono un approccio globale che includa riforme strutturali, investimenti e strategie mirate di riduzione del debito.
4. L’assenza di precisi riferimenti quantitativi e di clausole di flessibilità combinata con l’attribuzione del potere di determinare e monitorare le traiettorie di aggiustamento rischia di concedere poteri discrezionali eccessivi alla Commissione, senza prevedere sufficienti controlli ed equilibri. Nella proposta attuale, i governi nazionali avrebbero la responsabilità di proporre il piano economico pluriennale, ma la Commissione avrebbe il compito di stabilire la traiettoria di aggiustamento. Questo approccio manca di coerenza e amplifica ulteriormente il potere della Commissione come superburocrate regolatore. Esso in pratica può ostacolare una pianificazione efficace e creare confusione tra le parti interessate e sui mercati. Attribuire ai governi nazionali il potere di formulare la proposta iniziale di piani e traiettorie di aggiustamento appare necessario per un processo più coerente e per generare il senso di proprietà e responsabilità negli stati membri che la Commissione afferma di voler promuovere.
5. Eccessivi poteri discrezionali di controllo e regolazione della Commissione, specialmente nei casi in cui le maggioranze politiche differiscono tra i governi membri e la Ue, possono amplificare le motivazioni politiche e i conflitti di parte. Ciò può ostacolare il consenso, la cooperazione e un processo decisionale efficace, portando potenzialmente a uno stallo politico e a una gestione fiscale inefficiente.
6. Bilanciare i poteri discrezionali con l’autonomia degli Stati membri è essenziale per preservare la sovranità nazionale e la legittimità democratica. La concessione alla Commissione di poteri regolatori eccessivi può danneggiare il processo di integrazione europeo. Tale concessione di fatto sostituisce l’ampliamento dei poteri di politica economica della Commissione con il rafforzamento del suo ruolo di organo tecnocratico ai confini della burocrazia e della democrazia. Essa allo stesso tempo evita di costruire poteri politici effettivi di tipo federale, e paradossalmente rischia di suscitare preoccupazioni per la perdita di sovranità nazionale, erodendo la fiducia del pubblico e dei mercati nei processi decisionali delle politiche economiche dei Paesi membri. Trovare un equilibrio che rispetti i processi democratici, garantendo nel contempo il processo decisionale collettivo è quindi fondamentale per mantenere la fiducia dei cittadini nella governance di bilancio dell’Ue.
In conclusione, la proposta di revisione del Patto di stabilità da parte della Commissione va vista in un quadro di contraddizioni e di tendenze contrapposte, nel faticoso, ma pur progressivo cammino verso un modello federale europeo. La proposta infatti contiene innovazioni che tendono ad ampliare i poteri della Commissione attraverso una sua più ampia discrezionalità nel disegnare percorsi sostenibili insieme ai singoli paesi e l’esercizio di condizionalità estesa su riforme e investimenti. Allo stesso tempo, la prospettiva rimane quella delle regole in cui attenendosi al modello di successo della realpolitik esercitata finora, la Commissione cerca di rosicchiare spazi di governance evitando di invocare maggiori poteri di politica economica e spazio fiscale esplicitamente. Per quanto ciò possa apparire in continuità con il passato, l’importanza della riforma del Psc è tale, che questa tattica crea di fatto una contraddizione che minaccia la proposta dalle sue stesse radici. Il quadro di aggiustamento strutturale da negoziare con i singoli Paesi sarebbe infatti un quadro strettamente nazionale, che non tiene conto delle reciprocità e delle interdipendenze del quadro europeo.
La proposta attuale va interpretata e apprezzata in questo quadro di riferimento, tenendo conto che essa contiene alcune idee cruciali condivisibili, quali la personalizzazione dei sentieri di aggiustamento e la priorità delle riforme e degli investimenti come strumenti di politica economica. Tuttavia, la proposta stessa manca di un quadro europeo di riferimento e tende a perpetuare il Psc come un sistema di regole tese a limitare i danni dei comportamenti dispendiosi di Paesi ritenuti a priori poco virtuosi. La proposta inoltre è, allo stesso tempo, troppo audace sui poteri di discrezionalità della Commissione nel regolare e monitorare le performance dei singoli Paesi, e troppo timida sullo spazio fiscale di cui ha bisogno per l’esercizio di una effettiva politica economica. Essa dovrebbe essere ulteriormente negoziata rilanciandone le innovazioni positive, ma nel quadro di una visione più ampia del processo di convergenza verso istituzioni e politiche comuni efficaci.