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La maledizione delle riforme e il compromesso possibile. Scrive De Tomaso

Anche l’elezione indiretta del premier non differisce molto dall’elezione diretta, visto che oggi partiti e leader s’identificano alla perfezione. Il commento di Giuseppe De Tomaso

Nessun traguardo eccita i governanti più delle riforme costituzionali, che li potrebbero immortalare nei libri di storia. Ma nessun obiettivo svetta come le riforme costituzionali nell’elenco delle trappole pronte ad affondare un governo o una leadership. La lista dei pezzi da novanta della politica segati dall’ambizione di rifondare il loro Stato d’elezione è più lunga di una filastrocca per bambini, ma, nonostante tutto, nonostante gli insegnamenti del passato, il fascino delle riforme costituzionali si conferma, ad ogni legislatura, più irresistibile di una fatale super-vamp.

Citiamo solo un paio di nomi tra gli eccellenti traditi dall’aspirazione riformatrice: l’italiano Alcide De Gasperi (1881-1954) e il francese Charles De Gaulle (1890-1970). Il primo cadde sulla cosiddetta Legge Truffa, ossia sull’idea di assegnare i due terzi dei seggi parlamentari alla coalizione che avesse ottenuto, nelle votazioni politiche, la maggioranza semplice dei voti popolari. Sia pure per un soffio lo statista trentino fallì nell’impresa. Il secondo, il generale De Gaulle, scivolò (1969) sul referendum che riformava il Senato e regionalizzava la Francia.

Eppure, nonostante il passo falso compiuto da due, testé citati, giganti della politica europea, i propositi di sconfessare la tradizione e il buon senso, pur di varare radicali progetti di riforme, non vanno mai in vacanza. Anzi, si rincorrono e si sfidano come ciclisti al Giro. Né vale ricordare che è quasi matematicamente, prima che elettoralmente, impossibile prevalere in una contesa referendaria sulle riforme per la semplice ragione che lo schieramento del No riesce a mettere assieme, nel medesimo fronte, partiti distanti anni luce tra loro. E siccome sono pochissime le alleanze in grado di superare, nelle verifiche elettorali ordinarie, la quota del 50% dei voti, attestandosi quasi tutti i cartelli vincenti poco al di sopra del 40%, è sufficiente un banale pallottoliere per dedurre che nessuna maggioranza di governo potrà mai avere la meglio contro il muro del No eretto da tutti i vari e variopinti oppositori a una Grande Riforma. Anche Matteo Renzi sarà vittima della peculiarità tipica dell’istituto referendario: quella di coalizzare gli avversi alla proposta di un governo, anche se, ripetiamo, i suddetti contrari, sul resto dei programmi e dei problemi, si accapiglieranno come eredi litigiosi davanti a un notaio.

Ecco perché, al posto di Giorgia Meloni, non innesteremmo la quinta marcia sulla strada delle riforme. Uno, perché non ci sarebbero, in Aula, i due terzi dei voti necessari per varare una revisione costituzionale a maggioranza qualificata. Due, perché in caso di consultazione popolare, all’indomani dell’eventuale approvazione di un testo a maggioranza semplice nel Parlamento, il rischio di rivivere, dopo la conta delle schede dei cittadini, la delusione provata dai tre leader sopra menzionati sarebbe, per la premier, più concreto di un incidente a bordo di un’auto sprovvista di freni.

Anche De Gasperi, De Gaulle e, più tardi, Renzi erano sicuri che i test elettorali, cui avevano sottoposto le loro riforme, si sarebbero rivelati più comodi di una passeggiata. Si è visto. Si è visto che nemmeno il carisma più riconosciuto è in grado di avere la meglio sulla coalizione degli oppositori. Segno che la legge e la logica dei numeri battono qualsiasi altra considerazione, specie se o quando quest’ultima è caratterizzata anche dal sentimento dell’ambizione, della sfida individuale.

Se c’è uno strumento che, sulla base dell’esperienza trascorsa, potrebbe riuscire utile ai riformatori più indomiti, quello del silenziatore rimane il più efficace, da consigliare sùbito. Infatti. Più si alza il volume mediatico sulle riforme di sistema da introdurre, più si pregiudica la loro convalida da parte dell’elettorato: ci vuole poco a far convergere sul No anche gli animi più incerti e perplessi, pur se portatori di visioni e tessere politiche opposte. Il silenziatore, invece, ha il pregio di placare, e avvicinare, anche gli spiriti più irriducibili e lontani, oltre che di declassare ad atti formali i provvedimenti più impegnativi e divisivi. Provate a immaginare quale avrebbe potuto essere l’esito del quesito referendario svoltosi nel dicembre 2016 sul pacchetto delle riforme di Renzi, se l’allora presidente del Consiglio avesse abbassato i toni e non avesse caricato il voto di significati plebiscitari sulla sua persona. Probabilmente, per le ragioni qui illustrate, Renzi non avrebbe oltrepassato ugualmente quota 50%, ma quasi certamente il suo bottino elettorale avrebbe superato di parecchio la soglia del 40% e forse gli avrebbe consentito di trasformare una sconfitta numerica in una vittoria politica. Viceversa, l’accaloramento e la personalizzazione della sfida giocheranno un cattivo scherzo al Rottamatore fiorentino, peggio di un autogol al 90° minuto in una finale di Champions.

Meloni dovrebbe far tesoro della maledizione che si accanisce su tutti i riformatori a oltranza, soprattutto su quelli innamorati della propria autosufficienza. Dovrebbe cioè rifuggire dalla tentazione di procedere a cambiare la Costituzione a colpi di maggioranza, per allargare invece il gioco a tutto campo. Peraltro, la quadratura del cerchio tra le proposte della maggioranza di centrodestra e le probabili controproposte delle opposizioni di centrosinistra non è impossibile. Scartati presidenzialismo e semipresidenzialismo, su cui nessun collante potrebbe fare il miracolo della vasta convergenza, verosimilmente rimarrà sul tavolo la soluzione di rafforzare la figura del capo del governo. Quasi certamente ci si scontrerà tra quanti vorranno l’elezione diretta del premier e quanti la osteggeranno pur convenendo sulla necessità di proteggere il primo ministro da imboscate e ricatti da parte della sua stessa maggioranza. Ma oggi, nell’era che vede la totale identificazione tra il partito e il proprio leader, tanto è vero che il nome di quest’ultimo spesso troneggia nel simbolo della sua forza politica, risulterebbe difficile distinguere tra elezione diretta ed elezione indiretta del premier. Entrambe si gioverebbero della legittimazione popolare. L’elezione indiretta, peraltro, offrirebbe maggiori garanzie di stabilità (più flessibile, ossia più facile la successione) qualora, per varie ragioni, il capo del governo fosse impossibilitato a proseguire il mandato. L’importante, per la tutela del titolare di Palazzo Chigi, non è il sistema di elezione, ma il corredo di misure (sfiducia costruttiva, inemendabilità delle leggi di bilancio, nomina e revoca dei ministri, voto di fiducia a Camere riunite direttamente al premier eccetera) in grado di agevolarne la funzione di timoniere della nave governativa.

Del resto, la quintessenza della democrazia è il compromesso. Soprattutto quando il compromesso non snatura la meta cui si tende. Meglio ricercare un buon compromesso anziché rischiare di spaccare in due il Paese con la prospettiva di cadere nella sindrome del colibrì, che muove in continuazione le ali, ma non si muove mai.

 



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