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Le rinnovabili, la burocrazia e la metafora dei treni. Scrive Biello

Di Carmine Biello

Lo sviluppo infrastrutturale di un Paese merita procedimenti amministrativi degni. I sistemi energetici è bene che vengano calate nei contesti territoriali e socio-economici, perché gli effetti di processi squilibrati impattano poi a lungo sul bene comune. Non è facile, ma le scorciatoie sono insidiose: è giusto avere treni più veloci, ma le fermate vanno rispettate, gli orari pure e le corse mantenute, semmai rinforzate, ma mai cancellate

Tempo fa mi colpì un’efficace suggestione che paragonava un procedimento ammnistrativo ad un treno, con le sue fermate e i suoi orari: esso deve sempre cercare di recuperare eventuali ritardi, ma non può saltare le fermate, per non pregiudicare gli interessi di alcuni, nel tentativo di tutelare quelli di altri. Conta più che il treno sia in orario oppure che segua la sua tratta?

Quello del bilanciamento degli interessi legittimi nei procedimenti amministrativi del nostro ordinamento è un tema antico e complesso, nel quale è sempre arduo avventurarsi: soprattutto quando, come nel caso delle fonti rinnovabili, sono in gioco interessi del massimo rango costituzionale, quali la tutela del paesaggio e dell’ambiente.

Tuttavia, proprio per tale caso, possiamo domandarci come mai da noi persista un appello continuo alla “sbu-rocratizzazione”, sebbene si succedano ormai da anni pesanti ondate normative “sblocca-rinnovabili”, anche su impulso dell’Europa.

L’impianto normativo per la promozione di quelle fonti (dlgs 387) ha appena compiuto vent’anni, ma è ancora di un’attualità disarmante, a scorrerlo oggi; i diversi interventi regolatori poi occorsi i a livello centrale ne hanno peraltro progressivamente aumentato l’incisività. Senonchè esso è stato oggetto nel tempo anche di una lunga serie di iniziative di natura applicativa a livello locale (secondo il Gse, ben 408 tra il 2014 e il 2021) che ne hanno quanto meno imbrigliato l’efficacia, pur essendo tutte a vario titolo rispettose del principio di non appesantimento delle procedure.

È come in acqua: imprimendo più impulso all’azione si rischia di aumentare l’attrito e quindi la resistenza all’avanzamento. Così per il procedimento amministrativo, quando risulta più lento e contorto, a fronte di un maggiore impatto: esso diventa un percorso esasperante, che induce ad aumentare ancora la spinta e a provocare un circolo vizioso.

Ma ecco il punto: si tratta davvero di una resistenza da vincere? Se invece quel percorso fosse la chiave per la soluzione, non il problema?

Il diritto al “giusto procedimento”, al pari ormai di quello al “giusto processo”, è anch’esso un nostro principio di massimo rango e noi stessi non esitiamo ad invocarlo non appena veniamo sfiorati nei nostri interessi. In effetti la principale ragione d’essere del procedimento amministrativo, nel suo più o meno articolato dispiegamento, è proprio quella di perseguire un equo contemperamento tra istanze concorrenti: a maggior ragione quando sono coinvolti beni supremi, come appunto l’ambiente e il paesaggio.

Allora chiediamoci fin dove è bene spingersi nel comprimere quel diritto, limitando la discrezionalità, saltando i passaggi, indirizzando le valutazioni alla conformità più che alla compatibilità, privilegiando il risultato “ad ogni costo” e il tempo come fine di per sé.

Le misure emergenziali, il silenzio-assenso, il decisore di ultima istanza, l’abbreviamento dei termini, se utilizzati in via sempre meno residuale, possono pregiudicare o anche impedire la ricerca di quell’equilibrio tra interessi, scoraggiare un approccio meno formalistico delle strutture amministrative e, in definitiva, non assicurare la conclusione proficua di quei procedimenti.

La risoluzione delle inerzie o dei dissensi è cosa diversa dalla presa di decisioni, la quale non può essere elusa; né l’espropriazione dei processi dall’ambito territoriale è alla lunga efficace: il territorio infatti è il terreno più sicuro su cui costruire quelle decisioni. Del resto è l’acqua stessa ad agevolare l’avanzamento, quando l’attrito è minimo.

Per questo il time-out invocato dai governatori del Sud mette in luce soprattutto un’esigenza: quella di ricercare ulteriori strumenti di inclusione del territorio per condurre in porto il flusso aumentato dei procedimenti. Ad esempio nel campo delle compensazioni per le comunità locali, che non si vede perché debbano essere circoscritte ai soli confini comunali, vista la portata imponente che possono avere oggi le opere di questo settore (basti pensare ad un grande parco eolico a mare).

E non è insensato rivendicare un diritto: quello di sapere chi sarà il detentore finale di quelle opere, cioè chi ne risponderà di fronte alla collettività. Oppure, come nel Lazio, quello di poter dire anche qualche “no”, purché adeguatamente motivato.

Lo sviluppo infrastrutturale di un Paese merita procedimenti amministrativi degni ed esige ponderazione e discernimento. L’Italia sta accelerando nel suo percorso di decarbonizzazione, sia pur ancora non abbastanza: il solare, ad esempio, lo scorso anno ha segnato il suo record di crescita.

I sistemi energetici è bene che passino attraverso progressioni armoniche e bilanciate, calate nei contesti territoriali e socio-economici, perché gli effetti di processi squilibrati impattano poi a lungo sul bene comune.

Non è facile, ma le scorciatoie sono insidiose: è giusto avere treni più veloci, ma le fermate vanno rispettate, gli orari pure e le corse mantenute, semmai rinforzate, ma mai cancellate.

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