Prigozhin dopo la minaccia sulle munizioni annuncia che i suoi mercenari resteranno a Bakhmut, lo scrittore Prilepin esce dal coma. Ma la settimana appena trascorsa, con i droni sul Cremlino, fa emergere tutte le difficoltà del regime di Putin. Ecco quali sono secondo il professore dell’Università Federico II
Nel corso di questi ormai 14 mesi di guerra la settimana ormai appena trascorsa è stata una delle più agitate dal lato russo. L’attacco dei droni al Cremlino, una nuova ondata di polemiche di Evgeny Prigozhin e l’attentato allo scrittore e leader nazionalista Zakhar Prilepin hanno scandito queste giornate, tra sabotaggi ferroviari, incendi in raffinerie e centrali elettriche prese di mira. Un susseguirsi di azioni e di eventi che nell’insieme parlano delle difficoltà del sistema putiniano di fronte a un conflitto di cui si attendono i successivi sviluppi, con l’evocata controffensiva ucraina ancora non iniziata.
Nel mettere in fila gli avvenimenti di questi giorni, l’immagine dei droni abbattuti sulla cupola in fiamme del Palazzo del Senato al Cremlino è la notizia principale, per la sua forza evocativa. L’ipotesi della false flag, inizialmente diffusa sui social e anche da alcuni media, appare quantomeno bizzarra proprio per il danno compiuto alla figura di un Putin invincibile, tenuto al sicuro da una complessa struttura di sicurezza in grado di proteggerlo da attacchi esterni. Il presidente russo, com’è noto, vive nella residenza di Novo-Ogarevo, e al Cremlino è presente per cerimonie e riunioni importanti, ma quel che conta è la capacità di poter arrivare e colpire il simbolo stesso del potere in Russia, la cittadella-fortezza prima d’ora bombardata solo tra il 1941 e il 1942 dalla Luftwaffe.
Anche la reazione dei vertici russi appare al momento raccontare della sgradita sorpresa di veder la Piazza Rossa nel mirino, a pochissimi giorni dalla parata militare del 9 maggio nella capitale, dove si svolgerà a differenza di altri capoluoghi regionali. Se i volti della propaganda mediatica, da Margarita Simonyan a Vladimir Solovyev, gridano all’unisono con l’ala oltranzista rappresentata dalla destra ultranazionalista e fascisteggiante di dover colpire i “centri decisionali” del nemico, Putin non ha rilasciato dichiarazioni se non per bocca del suo portavoce Dmitry Peskov, riservandosi una risposta commisurata alla minaccia. Nell’immaginario creato dalla propaganda, però, non si combatte con Kiev ma con Washington e l’Occidente, e le continue esternazioni sull’utilizzo dell’atomica di figure come il presidente della Duma Vyacheslav Volodin e l’ex premier Dmitry Medvedev contribuiscono ad aggiungere rumore, come le accuse all’amministrazione Biden di essere mandante di attacchi e omicidi. Posizioni e dichiarazioni forti, ma da cui dovrebbe conseguire uno scontro diretto con gli Stati Uniti, che resta al momento solo sul piano della retorica, rendendolo poco credibile.
Le difficoltà del sistema putiniano sono evidenti ormai da mesi con l’ascesa di Evgeny Prigozhin a vero e proprio protagonista dello spazio politico creato dalla guerra. L’imprenditore ormai diventato signore della guerra, se prima denunciava i giornalisti che scrivevano del suo impegno nella Wagner, ora rivendica apertamente azioni e misfatti della sua compagnia di ventura, e utilizza abilmente le possibilità apertesi con il conflitto per emergere come una delle figure principali del nuovo ordine russo post-24 febbraio 2022. Non passa settimana che gli attacchi – spesso infarciti di offese e di parole prese dal linguaggio delle carceri e della strada, al ministro della Difesa Sergei Shoigu, al capo di Stato maggiore Valery Gerasimov e all’establishment russo – non vengano registrati da Prigozhin in messaggi video e audio e poi pubblicati sui canali Telegram e sui siti del suo impero mediatico.
In un paese dove si viene condannati a svariati anni di galera per vilipendio alle forze armate e alle autorità, Prigozhin è libero di insultare il ministro della Difesa e di chiedere di aprire procedimenti penali per alto tradimento contro il governatore di San Pietroburgo Alexander Beglov, senza che nulla accada. Il 5 maggio il capo della Wagner aveva pubblicato un video sullo sfondo dei corpi senza vita dei suoi uomini a Bakhmut, indicandoli a quei “bastardi” di Gerasimov e Shoigu come conseguenza della mancanza di rifornimenti di armi e munizioni, fatto denunciato sin dallo scorso febbraio, per poi annunciare poche ore un ultimatum: Prigozhin avrebbe dato ordine di abbandonare le posizioni il 10 maggio in mancanza di rifornimenti.
Immediatamente è intervenuto Ramzan Kadyrov: il leader ceceno aveva costruito nel corso di questi mesi una relazione speciale con l’imprenditore, e si era detto pronto a inviare i propri distaccamenti a dare il cambio alla Wagner, ma, di fronte alla risposta di Prigozhin di procedere, l’uomo forte di Grozny ha replicato dicendo che bisognava rispettare Putin perché “ci ha fatto uomini” e ha inviato una propria lettera ufficiale al presidente chiedendo l’autorizzazione a sostituire i mercenari. Non c’è stato bisogno di attendere la risposta del Cremlino, perché, con un ulteriore colpo di scena, Prigozhin ha annunciato la mattina del 7 maggio di aver ricevuto rassicurazioni sui rifornimenti, quindi la Wagner resta a Bahmut.
Si tratta dell’ennesima mossa eclatante dell’imprenditore negli ultimi mesi, sempre più intenzionato a presentarsi come il condottiero proveniente dal basso in lotta contro una élite di privilegiati e codardi, stigmatizzata in ogni modo e contrapposta alle sofferenze e all’eroismo degli ex detenuti nel fango delle trincee ucraine, una narrazione populista e basata su un cameratismo simile più ad altre esperienze scaturite dalla Prima guerra mondiale, come i Freikorps, che alla disciplina e all’ordine dell’esercito prima sovietico e poi russo. Un elemento in grado di mettere in seria difficoltà la verticale del potere, vero e proprio dogma dell’ordine putiniano sin dall’inizio del primo mandato presidenziale, con effetti imprevedibili.
Lo scrittore Zakhar Prilepin, autore di romanzi simbolo degli anni Duemila come San’kja, è stato vittima sabato 6 maggio dell’esplosione di un ordigno posizionato sotto la sua Audi mentre era nella regione di Nizhny Novgorod, suo luogo d’origine. Da tempo Prilepin è impegnato nel sostegno alla guerra, già tra il 2016 e il 2018 era più volte stato in Donbass come volontario e poi comandante delle milizie locali, e da co-presidente di Russia Giusta-Per la verità, partito presente alla Duma, assieme al leader storico della formazione Sergei Mironov si è fatto promotore di iniziative e proposte volte a trasformare l’operazione speciale militare (nome ufficiale dato dal Cremlino al conflitto) in una guerra ad oltranza per distruggere l’Ucraina e annettere le sue terre alla Russia.
Alfiere di un nazionalismo estremo, aumentato dall’aura romantica dello scrittore con il mitra in una mano e nell’altra la penna, Prilepin si è trovato ad essere tra gli obiettivi di peso da eliminare. Nell’attentato, in cui è morto l’autista Alexander Shubin, già combattente originario di Luhansk, Prilepin ha riportato ferite gravi ma, dopo una lunga operazione d’urgenza a Nizhny Novgorod, è stato risvegliato dal coma farmacologico. Vi è una rivendicazione da parte di Atesh, formazione armata dei tatari della Crimea schierata con l’Ucraina, ma ad aumentare la confusione vi sono le dichiarazioni dell’ex deputato della Duma Ilya Ponomaryov, ormai abituato a intervenire in occasione di attentati eccellenti con frasi ambigue e attribuzioni a formazioni di dubbia esistenza.
Quel che però emerge da questa settimana di avvenimenti è che all’interno della Russia avvengono sabotaggi a linee ferroviarie e centrali elettriche, attacchi di droni a installazioni militari e persino (seppur dimostrativi) tentativi di colpire il Cremlino, attentati contro esponenti della linea della guerra totale e proteste da parte di capitani di ventura. La stabilità, parola d’ordine attorno a cui Putin ha costruito la propria narrazione di questi due decenni al potere, appare un ricordo ormai lontano di un passato distrutto dall’intervento militare in Ucraina.