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Come riformare l’abuso d’ufficio (tutelando i cittadini). Scrive l’avv. Gentiloni Silveri

Di Alessandro Gentiloni Silveri

Guardando al cuore del problema, non si può negare che l’abuso d’ufficio sia stato spesso oggetto di disinvolte applicazioni pratiche, a dispetto di un’evoluzione normativa che si è più volte proposta di ridimensionarne la portata. Non sarà facile, per il Parlamento, trovare un momento di sintesi di contrapposte argomentazioni che, prese da sole, colgono ciascuna un aspetto della realtà. Il commento dell’avvocato Alessandro Gentiloni Silveri

L’annuncio del ministro Carlo Nordio di voler abrogare il reato di abuso d’ufficio ha rinfocolato un annoso dibattito e serrato i ranghi delle fazioni che, da decenni, affrontano la questione da prospettive che con veemenza si oppongono diametralmente.

Eternato da una battuta di Roberto Benigni che, in uno sketch di alcuni anni fa, proponeva di contestarlo anche alla Vergine Maria che gli si sarebbe manifestata mentre si trovava in ufficio, ma senza aver ottenuto un mandato di comparizione, il reato punito dall’art. 323 c.p., per la sua struttura normativa storicamente vaga e posizione residuale all’interno del Codice penale – dal momento che si applica solamente se il fatto non costituisca un più grave reato, tipicamente la corruzione – si è prestato ad essere strumento di integralismi dell’uno e dell’altro segno.

Non deve quindi stupire l’attuale pendenza in Parlamento di ben quattro disegni di legge, che propongono riforme differenti del testo, compresa l’abolizione tout court, muovendo dalla condivisa percezione di inefficienza dell’attuale norma.

Da una parte ci sono molti pubblici funzionari, soprattutto sindaci, che individuano nell’abuso d’ufficio l’arma con cui alcune Procure della Repubblica, dotate di molto protagonismo e poco ossequio alla dottrina illuministica della separazione dei poteri, lanciano crociate contro la politica locale, finendo per sostituirsi a interi comparti dell’agire amministrativo. Alcuni additano l’art. 323 c.p. ad agente patogeno alla base di una dilagante pandemia di ‘paura della firma’: atteggiamento per cui, di fronte alla prospettiva di adottare un provvedimento controverso, l’agente pubblico preferirebbe astenersi dal fare qualunque cosa. A bloccargli la mano, la quasi certezza di vedersi denunciato da un qualunque gruppo di interessi scontento della decisione assunta, quindi indagato dai Pubblici ministeri, con il correlato corredo di gravoso travaglio personale, ingenti spese legali per dibattimenti infiniti, gogna mediatica, blocchi della carriera.

Un morbo particolarmente pericoloso in epoca di Pnrr, dove il rispetto degli stringenti obblighi imposti dall’Europa richiede pubbliche amministrazioni impavidamente in prima linea su tutti i fronti.

Dalla propria parte, il partito degli abolizionisti annovera i numeri. Recenti statistiche indicano che una percentuale elevatissima, oltre il 90%, dei procedimenti penali iscritti per abuso d’ufficio termina con un’archiviazione o una sentenza di proscioglimento già in udienza preliminare. Quei pochi fascicoli che giungono al dibattimento si concludono con una sentenza di condanna (in primo grado, si badi) solamente in poche decine di casi all’anno.

Inoltre, i detrattori della norma rimarcano il suo testo storicamente vago e indeterminato, che ben si è prestato -almeno fino alla riforma del 2020 – a costituire la piattaforma per aprire indagini su pressoché qualunque fattispecie e, quindi, per imporre il sindacato della giurisprudenza penale su ogni aspetto dell’agire pubblico, dietro lo scudo della tutela di meri principi di ispirazione eticheggiante.

Si sarebbe determinato, insomma, un “abuso dell’abuso d’ufficio”, tale da rendere improcrastinabile un ennesimo ripensamento di tutto il reato, in continuità con i diversi interventi di riforma già più volte operati con l’intento di dettagliarne meglio il precetto e di restringerne la portata limitando la discrezionalità giurisprudenziale: dapprima nel 1990, con l’inserimento di una tensione finalistica verso un vantaggio o un danno, poi nel 1997 con l’ancoraggio alla ‘violazione di norme di legge o di regolamento’ e la necessità di un evento connotato da ‘ingiustizia’, infine nel 2020, quando si è voluta escludere dalla violazione di legge penalmente rilevante l’area delle norme connotate da discrezionalità, o di mero principio.

All’opposto, altri sottolineano l’imprescindibilità di una norma che completi il sistema dei delitti contro la pubblica amministrazione, fondamentale presidio di legalità contro le prevaricazioni o i nefasti clientelismi che, in molte zone del Paese, soffocano la concorrenza e la parità di chances dei cittadini sotto una cortina di cointeressenze, amicizie, nepotismo, favoritismi occulti che si alimentano dall’ufficio pubblico ricoperto dal funzionario. In quest’ottica, si sostiene che proprio il ruolo sussidiario dell’incriminazione consente di non aprire pericolose zone franche dell’ordinamento, così come di superare le difficoltà probatorie che inevitabilmente attanagliano reati più gravi, come la corruzione, di cui l’abuso d’ufficio costituisce sempre, quantomeno, un fattore di sospetto.

Inoltre, i sostenitori della norma sottolineano gli obblighi internazionali di criminalizzazione delle condotte abusive che derivano da convenzioni (come quella di Merida, del 2003) di cui l’Italia è parte, oppure dal diritto europeo (come la proposta di direttiva in materia) e, più in generale, rifiutano ogni limite al diritto del giudice di verificare la legalità dell’azione amministrativa.

Viene negato anche l’effetto “paralizzante” dell’abuso d’ufficio. Da un lato, questo sarebbe già stato consegnato alla storia dalla recente “riforma Cartabia”, che ha reso più stringenti le regole sull’iscrizione nel registro degli indagati e soprattutto sull’esercizio dell’azione penale e sul rinvio a giudizio; dall’altro, l’abrogazione della norma non mitigherebbe i rischi per i pubblici ufficiali, dal momento che magistrati animati da furore punitivo potrebbero comunque contestare altri e più gravi reati, che già oggi, in gran parte dei casi, accompagnano le indagini per l’art. 323 c.p. (tipicamente: abusi edilizi, falsi, truffe).

Non sarà quindi facile, per il Parlamento, trovare un momento di sintesi di contrapposte argomentazioni che, prese da sole, colgono ciascuna un aspetto della realtà.

Guardando al cuore del problema, non si può negare che l’abuso d’ufficio sia stato spesso oggetto di disinvolte applicazioni pratiche, a dispetto di un’evoluzione normativa che si è più volte proposta di ridimensionarne la portata, e in danno di tantissimi pubblici funzionari che hanno patito gravi ripercussioni da indagini sfociate in un nulla di fatto.

Tuttavia, la soluzione di abolire del tutto la norma non persuade. Non tanto per i sempre presenti “obblighi internazionali” – che ad attenta analisi non appaiono così dirimenti – né per ardite prognosi sulle possibili reazioni della giurisprudenza post-abrogazione, quanto perché un aspetto assai poco valorizzato nella discussione è quello della natura ancipite del reato di abuso d’ufficio.

Storicamente, esso ha incriminato – ed incrimina tuttora – sia l’abuso clientelare delle pubbliche funzioni, il cui disvalore sta nella distorsione dell’eguaglianza dei cittadini e nella torsione dell’ufficio a beneficio affaristico privato, sia l’abuso prevaricatore, in cui l’agente utilizza i poteri collegati al suo ruolo per danneggiare ingiustamente altri (come negli esempi di scuola del demansionamento ritorsivo in un ufficio pubblico, o del vigile urbano che multa falsamente l’auto del rivale in amore).

Se allora, ragionando in astratto, la repressione del primo tipo di abusi potrebbe anche venire assicurata da altri rami del diritto, l’abrogazione secca della norma aprirebbe un pericoloso vuoto di tutela in tutte quelle situazioni in cui il cittadino si trova esposto alle vessazioni di chi agita i poteri pubblici contro di lui.

Lodevolmente, quindi, alcune proposte di riforma si limitano all’abuso affaristico, lasciando intatto l’abuso prevaricatore.

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