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I numeri (e gli obiettivi) del nuovo complesso militare-industriale europeo

L’Ucraina ha svelato che l’Europa non è militarmente preparata ad affrontare un conflitto convenzionale. Ma le reazioni iniziali non sono ancora state seguite da atti concreti. E senza le commesse dei governi, i grandi campioni continentali della Difesa si ritrovano con una capacità d’azione limitata

L’autonomia strategica europea rimane ancora sulla carta, perlomeno per quello che riguarda la dimensione degli armamenti. L’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio del 2022 sembrava essere stata una doccia fredda per molti leader nazionali ed europei, che li ha convinti che ‘la Storia non fosse finita’ e che la potenza militare avrebbe giocato un ruolo di primo piano nelle dinamiche geopolitiche del XXI secolo.

Con il passare dei mesi, lo sforzo coordinato dei paesi membri ha permesso all’Unione di sostenere la resistenza di Kyiv all’invasione russa con armi, munizioni ed altri equipaggiamenti non letali. Mentre questi pacchetti di aiuti venivano confezionati, a Bruxelles così come nelle capitali europee diventava sempre più chiaro il fatto che l’arsenale militare europeo fosse ridotto agli sgoccioli.
Il progressivo svuotamento degli arsenali non suggeriva solamente l’impossibilità dell’Unione a continuare a inviare rifornimenti all’Ucraina; esso implicava che, in caso di escalation, l’Europa non avrebbe avuto gli armamenti sufficienti a difendere sé stessa.

Di fronte al manifestarsi di un tale scenario, la reazione Europea è stata netta: investire nella difesa. Non solo produrre di più, ma anche incrementare le capacità produttive, moltiplicando gli impianti e lavorando per ridurre le dipendenze da paesi non alleati all’interno delle varie supply chains, fino a farle scomparire definitivamente.

Tuttavia, nonostante i grandi proclami, sul piano pratico ci sono stati scarsi sforzi in questa direzione. A cavallo tra maggio e giugno, il Parlamento europeo ha espresso parere favorevole sulla proposta della Commissione (denominata Act in Support of Ammunition Production, o Asap) di destinare 500 milioni di euro all’incremento della capacità produttiva europea di munizioni e missili. Un evento importante, ma ancora non sufficiente.

Sul lato dell’offerta c’è stato qualche movimento, in risposta alla richiesta urgente di prodotti da parte dei governi di tutta Europa. Saab, Mbda, Thales, Nexter e Rheinmetall hanno incrementato i loro output su base mensile e/o annuale, per venire incontro all’elevata domanda di questi mesi. Ma sono solo risultati temporanei validi nel breve periodo, raggiunti istituendo turni supplementari, acquistando nuovi macchinari, dando priorità agli armamenti che scarseggiano maggiormente, coordinandosi con i fornitori e assumendo più lavoratori. Per portare la produzione ad un nuovo livello, servono investimenti e contratti a lungo termine.

Contratti che fino ad ora non sono stati firmati dalle autorità politiche. C’è qualche rara eccezione: Krauss-Maffei Wegmann ha ricevuto una commessa da parte del governo tedesco per la costruzione di 18 nuovi Leopard 2 (volti a rimpiazzare quelli mandati in Ucraina; Rheinmetall ha stipulato accordi sulla produzione di munizioni per un valore totale di più di 500 milioni di euro (la stessa cifra dell’Asap) con vari paesi europei; Nexter sta producendo munizioni da 155 mm acquistate di Helsinki. Ma allo stesso tempo, si continua a guardare all’estero. La Polonia (notoriamente più atlantista che europeista) ha stipulato contratti da più di 10 miliardi di dollari con aziende statunitensi per l’acquisto dei Main Battle Tanks Abrams e dei caccia multiruolo (F-35), a cui sembra essere interessata anche la Romania. Mentre Danimarca e Olanda hanno acquistato da Israele importanti porzioni di materiale militare.

“È un mercato molto specifico. Non c’è domanda privata, e le aziende dipendono molto dai rapporti con i governi” commenta la direttrice del programma military expenditure and arms production dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), Lucie Béraud-Sudreau. Finchè i governi non firmano accordi ufficiali, stanziando risorse economiche, i risultati saranno obbligatoriamente limitati. Lo rende esplicito il Ceo di Nexter, Nicolas Chamussy, rivolgendosi ai parlamentari francesi:”Ad oggi, lo sforzo di mobilitazione rimane in gran parte autofinanziato, stiamo raggiungendo il limite massimo. Questo autofinanziamento si ferma dove inizia l’imperativo di una buona gestione per le aziende private come noi.”

L’aumento delle spese militari è una delle grandi questioni (ri)emerse dallo scoppio del conflitto in Ucraina. Molti paesi membri della Nato stanno incrementando il budget dedicato, ma sono ancora lontani dal destinare il 2% del proprio Pil alle spese per la difesa, secondo quanto richiesto dalle regole dell’Alleanza. Mentre qualcuno già mira ad alzare la soglia al 3%. Le azioni dei prossimi mesi, così come quelle dei prossimi anni, saranno fondamentali per capire se e quanto l’Europa voglia veramente dotarsi di un Autonomia Strategica sul piano della produzione militare.


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