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“Mostri” e diritto di difesa a proposito del caso Senago. Scrive l’avv. Stampanoni Bassi

Di Guido Stampanoni Bassi

Spesso in presenza di delitti particolarmente efferati, l’opinione pubblica si scaglia non solo contro il presunto colpevole bensì anche contro l’avvocato difensore, dimenticando il principio – garantito dalla Costituzione – del diritto alla difesa

In aggiunta alle chat spiattellate su tutti i giornali, a dettagli macabri o inutili (come il fatto che “Alessandro Impagnatiello dopo la confessione si sia specchiato per sistemarsi il cappellino”) e al racconto, minuto per minuto, di cosa sia avvenuto durante l’interrogatorio, la tragica vicenda di Senago ci ha consentito di assistere all’ennesimo attacco alla funzione difensiva.

Come si può difendere un mostro del genere? A cosa serve fare un processo? Se difendi questo assassino sei un suo complice. Chi difende mostri del genere non ha né coscienza né dignità. Con che coraggio questo avvocato difende una bestia simile? Ah scusate, tra bestie si capiscono”.

Queste sono solo alcune delle frasi – tra le centinaia e centinaia ancora adesso presenti sui social – che sono state rivolte al precedente difensore di Impagnatiello.

Il copione è sempre il medesimo: in presenza di tragici fatti di cronaca, il difensore, lungi dall’essere visto come garante del rispetto dei diritti (di tutti), viene identificato come difensore del reato in quanto tale, se non addirittura come complice dell’assistito. Non c’è bisogno di ricordare come senza avvocati chiamati a garantire il rispetto dei diritti – anche di chi abbia commesso il più atroce dei delitti – verrebbe meno l’essenza stessa dello Stato di diritto e del diritto ad un giusto processo.

In presenza di riprovevoli fatti di cronaca, questo elementare principio viene però dimenticato e il sentimento di vendetta che si genera nell’opinione pubblica è spesso alimentato da commenti – a volte provenienti anche da tecnici del diritto – che, a poche ore dai fatti, già lanciano l’allarme sul fatto che l’indagato, tra liberazione anticipata e misure alternative, potrebbe fare pochi anni di galera oppure addirittura farla franca invocando infermità di mente.

Tutto ciò porta ad invocare una giustizia che può tranquillamente fare a meno del processo – e, di conseguenza, anche degli avvocati (i quali potrebbero solo mettere i bastoni tra le ruote con pretestuose eccezioni) – nella quale perfino il giudice che ha escluso l’aggravante della premeditazione diventa un bersaglio.

Quando, nel processo contro le Brigate Rosse, Fulvio Croce venne nominato dal presidente della Corte di Assise di Torino difensore d’ufficio degli imputati – i quali avevano revocato i difensori di fiducia – accettò l’incarico, pur consapevole dei rischi cui andava e sarebbe di lì a poco andato incontro, ricordando che “si tratta di adempiere ad un preciso, seppur gravoso, dovere di tutti gli avvocati, diretto a garantire l’attuazione della difesa tecnica secondo i principi della Costituzione”.

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