Riforme per la competitività e attuazione del Pnrr: due condizioni essenziali per convincere Stati frugali e Bce sulle esigenze e aspettative finanziarie del Belpaese
Se la parola debito in Germania fa più paura di un pitone in salotto, la parola inflazione fa più paura di dieci tigri in camera da letto. La recente storia tedesca è ancora troppo condizionata dalle tragedie causate, nel secolo scorso, dal crollo del potere d’acquisto della moneta per consentire ai governi di Berlino di abbassare la guardia sui pericoli legati al binomio debito-inflazione. Senza questa accoppiata, il popolo del grande Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) non avrebbe subìto il nazismo e tutte le pratiche disumane imposte dal suo Fuhrer. Senza questa accoppiata, le idee assassine del ventesimo secolo non avrebbero sottomesso la Germania e altre democrazie europee fino al punto di pianificare un genocidio di dimensioni planetarie. Ecco perché tutto si può chiedere ai tedeschi e agli altri popoli con loro confinanti tranne che chiudere un occhio sulle conseguenze, sui rischi delle politiche monetarie troppo espansive. La sobrietà e il rigore degli odierni prussiani derivano dalla storia e dal costume, prima che dalle convinzioni e dalle predisposizioni economiche.
Del resto l’addio al glorioso marco per fare strada all’inedito euro venne accettato dall’allora esecutivo di Bonn in cambio di un Sì e un No: Sì, da parte dell’intera Europa, alla riunificazione delle due Germanie e No, sempre da parte dell’intera Europa, alla monetizzazione del debito (leggi: stop alla tentazione fatale di stampare banconote su banconote). Se il Cancelliere del tempo, il democristiano Helmut Kohl (1930-2017), non avesse ottenuto l’ok dell’intero Occidente a queste due richieste, la storia del Vecchio Continente avrebbe preso un’altra direzione.
Alle corte. L’imperativo categorico della Banca centrale europea è tenere bassi i prezzi. Anzi. La Bce è nata con questo compito incorporato nel suo certificato di battesimo. In che modo tutelare i consumatori? Adottando politiche monetarie prudenti e rigorose, anche a costo di entrare in rotta di collisione con molti governi continentali, soprattutto mediterranei, tradizionalmente portati a politiche più keynesiane, orientate a eccitare la gente sugli acquisti anziché a incitarla sui risparmi. Non a caso, l’autonomia della Bce viene considerata da tedeschi e affini come la condicio sine qua non per affrontare qualsiasi discorso sull’approdo al bilancio comune dell’Unione Europea, cioè al bilancio comune approvato e varato dal parlamento di Strasburgo (e Bruxelles).
Solo a Mario Draghi, come presidente della Bce, è stato riconosciuto, rispettandone l’autonomia, sia pure a fatica, dal governo teutonico, il lasciapassare (anche culturale) per interventi di stimolo assai audaci. Ma si trattava, in questo caso, di salvare l’euro, indebolito dalla crisi finanziaria del 2008 e dai venti infuocati della speculazione. E si trattava, non va dimenticato, di Draghi, ossia di un tutore dell’euro al di sopra di ogni sospetto, anche per i super-falchi della Bundesbank. Se non si fosse chiamato Draghi il timoniere della Bce finita sotto la tempesta, non solo i mercati non si sarebbero calmati, ma probabilmente Francoforte stessa non avrebbe osato pronunciare quelle leggendarie parole di Draghi (<Whatever it takes>, tutto ciò che è necessario, costi quel che costi) risultate determinanti nel fermare sul nascere l’assedio degli speculatori.
Christine Lagarde, presidente in carica della Bce, non è Draghi. Non è Draghi soprattutto per estrazione o, meglio, per inclinazione o deformazione culturale. Lei giurista. Draghi economista. Lei votata al positivismo giuridico, lui allenato al pragmatismo esperienziale. Lei ossessionata dall’inflazione, lui preoccupato dal rischio decrescita. Lei condizionata dai timori finanziari dei governi parsimoniosi, lui attento anche ai conti e ai racconti degli Stati indebitati.
E siamo solo agli inizi. Chissà cosa accadrà quando, nel 2024, dovrà entrare in vigore il nuovo Patto di stabilità e crescita, dopo la sospensione delle originarie regole di partenza decisa prima a causa della pandemia e successivamente a causa della guerra di Vladimir Putin all’Ucraina. Da una parte l’austerità, dall’altra la flessibilità, con la Bce attenta a bordocampo, con l’incarico di fare la guardia ai prezzi e di tenere d’occhio la perversa sovrapposizione tra debito e inflazione.
I Paesi latini, a partire dalla Francia, temono come il fumo negli occhi la prospettiva di tornare agli obblighi del rigore. E invocano più flessibilità. Nero su bianco. Viceversa, i Paesi del Nord Europa non vedono l’ora di ripristinare regole più restrittive, premessa irrinunciabile per iniziare a discutere del bilancio europeo comune, presupposto, a sua volta, per l’integrazione politica dell’Unione.
Ci sarebbe una via d’uscita, capace di realizzare la quadratura del cerchio tra l’intransigenza voluta dall’Europa settentrionale e l’elasticità auspicata dall’Europa meridionale: accelerare, da parte di quest’ultima, specie in Italia, il cammino delle riforme in direzione di una più diffusa competitività e concorrenzialità del e nel sistema economico. Sì, perché forse Lagarde esagera nell’azione di contrasto all’inflazione (non provocata da domanda, ma da costi energetici ed extraprofitti), azione caratterizzata da continui aumenti del prezzo del denaro e pertanto suscettibile di deprimere le economie appena fuoriuscite dall’incubo della pandemia. Ma anche gli Stati latini, Italia in primis, forse esagerano nel sottovalutare i prelievi indiretti attivati dall’inflazione (la tassa più occulta e pesante che ci sia) sulle tasche dei contribuenti, specie di quelli a reddito fisso. Di sicuro un po’ di inflazione agli Stati indebitati conviene assai, un po’ meno ai cittadini più indifesi.
E allora? Ripetiamo. La Lagarde non è Draghi, non ne possiede il carisma e la fantasia. Ma attenti a gettarle la croce addosso, senza aver prima dimostrato di voler combattere l’inflazione e l’erosione del valore della moneta innanzitutto con iniezioni di concorrenza e di maggiore libertà economica. Anche il Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) può giovare molto alla causa dell’Italia, alla sua richiesta di duratura flessibilità. A patto che il Belpaese dimostri di saper progettare, investire e realizzare le opere. Ecco. Ci sono tutte le condizioni per indurre sia la Bce sia i Paesi frugali ad assumere un atteggiamento più duttile verso le esigenze italiane: dimostrare che le riforme sollecitate a Roma dall’Europa non sono lettere stracciate e gettate nel cestino; e dimostrare con i fatti che il Pnrr non sarà l’ennesima occasione perduta.