Ritratto del fuoriclasse serbo brillante non solo con la racchetta. Idolatrato in patria, a carriera sportiva conclusa, potrebbe entrare, già da vincitore, nell’arena politica serba. Il commento di Giuseppe De Tomaso
Dire che Novak Djokovic è un fenomeno è dire poco. Comunque andrà a finire domani, domenica, la finale al Roland Garros contro il norvegese Casper Ruud, finale che potrebbe consentire al fuoriclasse serbo di conquistare il 23mo Slam, lasciando il co-primatista Rafael Nadal fermo a 22 successi, le prodezze del tennista serbo non cessano mai di stupire (non solo) gli appassionati della racchetta.
In semifinale, ieri, si sono sfidati il passato e il presente-futuro di questo sport. Il numero uno “pro tempore” del ranking, il ventenne spagnolo Carlos Alcaraz, veniva dato favorito, alla vigilia, da 99 esperti su 100: troppo schiaccianti erano risultate le sue ultime vittorie a Parigi, compresi i quarti di finale. Nel giro di dieci giorni si sono visti, nell’ordine, avversari umiliati da soluzioni di gioco pazzesche, annichiliti da un dominio fisico impressionante, a volte ridicolizzati da magie in tutti gli angoli del campo. Insomma quello precedente alla semifinale con Djokovic era un biglietto da visita, a firma di Alcaraz, in grado di scoraggiare, mortificare chiunque. Persino, assicuravano gli addetti ai lavori, il leggendario Super-Nole, ormai schiacciato dall’inesorabile peso degli anni (già superata quota 36).
Invece. Invece Djokovic non solo non si è fatto impressionare dalla straripante baldanza dell’ambiziosissimo ragazzo prodigio, che quasi gli potrebbe essere figlio, ma ha costretto quest’ultimo a un surplus di corse e scatti, a un supplemento di stress nervoso, tali da stroncare persino il miglior toro delle arene iberiche. Risultato (per Alcaraz): crampi in tutte le parti del corpo, crollo delle difese contro le bordate dell’attempato ex numero uno mondiale, rinuncia a una finale Slam che pareva ormai roba già acquisita, più della sua capigliatura corvina.
Il fatto è che chiunque giochi contro Djokovic deve mettere in conto un piccolo o, dipende dai punti di vista, un grande dettaglio: Novak, specie quando è al top, non è invincibile per le sue doti tennistiche (ce ne sono altri, di campioni, nel circuito, di pari caratura). No. Lui è invincibile per la sua straordinaria forza mentale, che andrebbe analizzata e studiata in laboratorio come si fa per i casi scientifici eccezionali. Anche Alcaraz, che pure scende in campo con quel misto di incoscienza e senso di superiorità che solo i predestinati alla gloria possono consentirsi di ostentare, di fronte a Djokovic perde improvvisamente la sua strafottenza ancora adolescenziale per manifestare quel timore reverenziale (nei confronti di un mito) verso cui nessuno, finora, lo riteneva candidato a provarlo, men che mai a subirlo. E siccome il tennis è innanzitutto un gioco di testa, prima che di gambe o di braccio, eccovi spiegato il Fenomeno Djokovic. Nole è l’essenza vivente della concentrazione, anzi lui e la concentrazione sono la stessa cosa, si somigliano come gocce d’acqua. Idem Nole e la forza di volontà. C’è pure tutta la determinazione nazionalistica serba nel complesso di superiorità del Nostro, strano caso di sovranista esplicito, ma più globalizzato della Coca Cola.
Il bello è che Nole, a differenza di molti suoi colleghi e di tanti volti dello spettacolo, il complesso di superiorità se lo può consentire. Sa parlare più lingue di un interprete poliglotta professionista. Sa essere brillante e spiritoso (sempre plurilingue) in ogni circostanza: dai duetti con Fiorello agli sketch improvvisati in conferenza stampa. Quando parla, non dice mai banalità. Quasi sempre dice quello che pensa e pensa quello che dice.
Certo, sulla questione del vaccino anti-Covid ha steccato più di quanto gli possa capitare con la racchetta, ma gli vanno riconosciute la buona fede e la disponibilità a pagarne le pesanti conseguenze in prima persona. Insomma Djokovic tutto è tranne che un tipo qualunque, di quelli che affondano il dopo-gara in un fiume di retorica, ipocrisia e luogocomunismo. Tutto è tranne muscoli tanti e cervello niente. Anzi, il suo cervello è sempre più in forma e scattante di un corpo curato e allenato per vincere. Tanto meno, Nole è un quaquaraquà. Ha intelligenza, carattere e carisma da vendere, tanto che non sono pochi a pronosticare per lui una super-carriera da leader politico (in Serbia, ovviamente, dove è la personalità più amata). Già. Nel Paese che fu del maresciallo Josip Broz Tito (1892-1980) lo voterebbero a valanga pure i neonati, più di quanto fecero gli ucraini con l’attore Volodymyr Zelensky. Ecco. Chissà se, a carriera tennistica chiusa, Nole a Belgrado vorrà imitare, nel prossimo futuro, l’outsider Zelensky presentandosi anche lui sul proscenio pubblico. L’unica cosa certa è che Nole è il serbo più famoso del mondo e che il suo indice di gradimento supera, in patria, i livelli stellari raggiunti da Francesco Totti a Roma e da Diego Armando Maradona a Napoli. Cifre da plebiscito. Con una differenza, un valore aggiunto mica da niente. Solo di Djokovic e di pochissimi altri sportivi di ieri e di oggi si potrebbe dire che sono addirittura più intelligenti che bravi.
La sua longevità in cima alle classifiche, i suoi record di trionfi macinati come spighe di grano lo pongono sull’Olimpo delle arene di tutte le discipline sportive di ogni tempo. La sua storia personale, scandita, pur di emergere, da un’incredibile lista di autolimitazioni spartane e da una caparbietà di ferro degna di un romanzo epico, ne fanno un “unicum”, addirittura più del suo rivale Rafael Nadal, altro personaggio mitologico del tennis, punto di riferimento e di paragone per lo scalpitante connazionale Alcaraz, che ha già ereditato il suo scettro.
Conclusione. Essere come Nole non è facile. Imitarlo, non ne parliamo. Ma la sua vicenda – dagli allenamenti primordiali sotto le bombe della guerra in Serbia alle mille rinunce, per lui, fatte dalla sua famiglia – esula i catini e le cronache del tennis. Costituisce l’ennesima conferma che nulla è precluso a chi suda e studia, specie se madre natura lo ha omaggiato di porzioni aggiuntive di materia grigia. Una precondizione che sembra fatta apposta per aprire il sipario anche al secondo atto della Djokovic story: quello di leader istituzionale di un intero Paese, la Serbia. Leader nazionale già lo è.