L’emergenza sanitaria in alcune regioni richiede più investimenti pubblici, per evitare che lo Stato sia debole dove dovrebbe essere forte e forte dove dovrebbe essere debole
L’emergenza sanitaria sembra non finire mai. Alcune regioni rischiano il collasso nell’estate appena cominciata. Mancano i medici. Quelli in corsia sono sottoposti a turni massacranti. Molti preferiscono approdare nelle cliniche private, spesso cambiando città e, talvolta, anche nazione. Le Asl sono arrivate al punto di farsi concorrenza tra loro, confezionando bandi di concorso col retropensiero di assumere medici e infermieri interessati a cambiare sede. E meno male che il Covid è andato in pensione, altrimenti una parte di italiani si sarebbe trovata di fronte a un bivio: curarsi oltre frontiera oppure affidarsi ai santi di riferimento, sperando in una loro prodigiosa intercessione.
La semi-paralisi della sanità dipende mille cause, come accade per tutti i problemi complessi di questo mondo. Ma la carenza dei medici è figlia della presunzione, tipica di ogni pianificatore, di voler prefabbricare il futuro. Presunzione che, come avrebbe ricordato l’economista austriaco Friedrich von Hayek (1899-1992), si rivela immancabilmente fatale, perché la conoscenza umana è dispersa tra milioni e milioni di persone e non esiste un Grande Fratello provvisto di poteri divini nonché depositario di tutte le nozioni e informazioni. Si dovrebbe, al contrario, procedere sempre, popperianamente imparando, per congetture e confutazioni, per tentativi e verifiche, in maniera tale da correggere, strada facendo, gli inattesi contraccolpi, le ripercussioni in-intenzionali di ogni decisione.
In Medicina, non da oggi, vige un doppio numero chiuso. Il primo numero chiuso riguarda l’accesso alla facoltà universitaria. Lo Stato, evidentemente, ritiene o pretende di sapere con largo anticipo come evolverà la relazione tra domanda e offerta di salute. Di conseguenza fissa da tempo la cifra dei laureati di cui avrà bisogno. E a chi, in questi decenni, ha obiettato che, in tal modo, si rischiava e si rischia di sbagliare previsione, lo Stato ha controbattuto che non vi erano, e non vi sono, le aule e le strutture in grado di ospitare una folla più cospicua di studenti, cioè di garantire lezioni e approfondimenti universitari degni di questo nome. Il che è pure vero, ma uno Stato efficiente non si limita a prendere atto di una situazione di disagio, semmai si attiva sùbito per porvi rimedio.
Il secondo numero chiuso tocca l’accesso alle borse di specializzazione, anch’esse contingentate e solo ultimamente incrementate su base nazionale e regionale. Anche sulle borse di specializzazione, pianificate a tavolino, è dato assistere alla presunzione (fatale) di chi è convinto di conoscere la tipologia, la ripartizione e l’evoluzione delle malattie che si cureranno in avvenire. Nemmeno lo choc provocato dal Covid, che ha spiazzato tutti i più pretenziosi Nostradamus, rilanciando l’esigenza di specializzazioni funzionali al contrasto delle epidemie, ha sradicato dogmi, pronostici e auto-convinzioni del passato. L’Italia, avrebbe commentato oggi un Luigi Einaudi (1874-1961), una vita contro i numeri chiusi di ogni genere, rimane il Paese degli andazzieri. L’andazzo è la sua stella polare.
Molti sostenitori del doppio numero chiuso in campo medico potrebbero osservare, a ragione, che solo una selezione severa degli accessi è garanzia di professionalità e qualità. Vero, verissimo. Ma la selezione dev’essere effettuata dalla severità degli studi universitari, non dai quiz preventivi per le aspiranti matricole, o dalle scelte dei soliti pianificatori di professione. Inoltre, la selezione della futura classe medica deve procedere di pari passo con più incisivi investimenti nel settore della salute, per potenziare sia gli ospedali di eccellenza sia gli ospedali di primo intervento o di prossimità.
Invece, sorprende tuttora la modesta cifra del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) destinata alla sanità: nemmeno il 10 per cento della somma complessiva (circa 200 miliardi di euro). Eppure il più massiccio piano di sostegni pubblici della storia europea doveva servire a sanare le ferite fisiche ed economiche provocate dall’epidemia sbarcata dalla Cina. E quale settore, più della sanità, aveva patito stress, disagi e drammi di ogni forma per colpa del Covid? Nessuno. Ma ciò non è bastato per concentrare sulla sanità il grosso degli investimenti pubblici finanziati dal Pnrr. Anzi.
Il tam-tam più insistente attribuisce questa disattenzione alla volontà sottaciuta di rafforzare la sanità privata a scapito della sanità pubblica. Bah. Stentiamo a crederlo, anche perché la sanità pubblica non è mai avara di contropartite, specie in termini di visibilità, per i detentori del potere. I dividendi, i tornaconti elettorali più sostanziosi sono strettamente collegati agli interventi, alle opere delle amministrazioni pubbliche proprio in materia sanitaria. Non si comprende, perciò, la ragione di cotanta timidezza nell’assegnare alla salute la priorità nell’agenda degli investimenti da parte dello Stato centrale e di tutte le altre articolazioni periferiche. Forse il motivo va ricercato nel fatto che le grandi opere producono benefìci elettorali soprattutto a chi le inaugura, non a chi le concepisce. E spesso queste due figure non coincidono. Di qui, forse, la riluttanza per la progettazione di iniziative suscettibili di fare il gioco di rivali, avversari e successori vari. Chissà.
Resta però la singolare persistenza di un paradosso, di una contraddizione più inspiegabile della neve ad agosto. Lo Stato, non soltanto in Italia, sta ridiventando il protagonista della scena economica. Non vi è settore in cui non metta becco e, innanzitutto, capitali. Non soltanto a causa del golden power il raggio d’azione della mano pubblica sembra orientato ad allargarsi a oltranza. Insomma, sta ritornando lo Stato factotum, lo Stato dirigista degli anni Settanta e Ottanta. Ma, ecco la stranezza, si salvano dalla voglia matta statale di ficcare il naso e i quattrini dappertutto proprio i due settori, sanità e istruzione, che, invece, richiederebbero più attenzione e risorse da parte della cassa pubblica. In soldoni: lo Stato è forte dove dovrebbe essere debole ed è debole dove dovrebbe essere forte. Ma se lo Stato non lascia il segno in istruzione e sanità, i due rami che più si addicono a una presenza pubblica (ovviamente non esclusiva e monopolistica), non si capisce perché, invece, lui dovrebbe dilagare in altri ambiti.
Il governo attuale farebbe bene a invertire una rotta avviata da decenni, farebbe bene ad aumentare – vincendo la tentazione pianificatrice da Gosplan sovietico – i finanziamenti su sanità e istruzione, sottraendoli ad altri capitoli di minore importanza e urgenza. Sì, perché ogni Stato ha il compito-dovere di farsi trovare nel posto giusto e al momento giusto, non nel posto sbagliato e al momento sbagliato.